Nella legge di stabilità appena approvata dalla Camera è più facile trovare qualche idea interessante che qualche cifra tonda in direzione “sviluppista”. La Card Cultura ai neo-maggiorenni è stata venduta politicamente come “investimento” sul futuro dei giovani e del sistema-Paese; ma l’acquisto di Cd o di corsi di musica sembra più parente degli 80 euro pro-consumo, forse appena un po’ meno “a pioggia”.
E’ certamente un capitolo sviluppista il pacchetto Industria 4.0. I provvedimenti sul super-ammortamento e sull’iper-ammortamento – non diversamente dal rifinanziamento della “Nuova Sabatini” – non sono semplici bonus destinati nell’occasione al settore delle macchine utensili. Sono incentivi che si muovono su una direttrice precisa di politica industriale: lo svecchiamento del parco-impianti della manifattura italiana. Puntano ad attivare un volano-innovazione che si avvia là dove le macchine vengono progettate e costruite e aggiunge sviluppo là dove le macchine di nuova generazione vengono acquistate e utilizzate. L’iper-ammortamento (250%) guarda in particolare alla digitalizzazione dei processi produttivi. E’ del resto lo stesso orizzonte indicato da un altro provvedimento di Industria 4.0; il rafforzamento del credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Se la cifrà messa sul tavolo dal ministero per lo Sviluppo è abbastanza tonda (13 miliardi anche se spalmati su quattro anni) conta probabilmente di più l’idea che la sostiene: la convinzione che lo sviluppo vero dell’Azienda-Italia possa essere generato solo da salti di qualità nella knowledge economy. Che nel ventunesimo siano più degni del titolo di “investimento” quelli in capitale umano che in infrastrutture tradizionali. Ci ha pensato del resto il primo decennio del nuovo millennio a evidenziare la pericolosa obsolescenza del vecchio stimolo anticiclico imperniato su lavori pubblici e edilizia privata: la ripresa drogata dai mitui subprime dopo-11 settembre ha prodotto quello che sappiamo e di cui ancora soffriamo. La resilienza vera, “sviluppista”, della Corporate America rimane nel suo primato scientifico-tecnologico, che continua a essere alimentato dall’education: da un tessuto scolastico che produce giovani capaci di produrre sviluppo.
Donald Trump non è stato votato dalla Silicon Valley, forse un po’ timorosa sul versante fiscale. Ma certamente la prima nomina femminile di peso della nuova amministrazione repubblicana ha guardato all’education d’eccellenza che è l’humus dell’hi-tech californiano e non solo. Betsy DeVos, designata Segretario all’Istruzione, è una veterana dell’Alliance for School Choice: la più importante organizzazione pro-scuola paritaria negli Stati Uniti. Una scelta che ha subito fatto discutere, ma che certamente non pecca di incoerenza: l’America “dimenticata” che la presidenza Trump vuole re-includere è anche quella che sente il bisogno di una reale pluralità di opportunità sui piano educativo. Un’America che vuole ritrovare appieno la ricchezza concorrenziale dei progetti scolastici che emergono nella sua Grande Società.
La competitività di un sistema-Paese la fanno migliaia di giovani scattanti che, usciti di classe, passano il fine settimana nei garage a inventare e sperimentare. La fanno i giovani che premono sull sistema universitario già con le idee chiare, con la voglia di riuscire in fretta. C’è questo specifico “sviluppismo” nel budget 2017 della Repubblica italiana? C’è un impegno nel segmento educativo che virtualmente precede “Industria 4.0”? Cifre tonde non se ne vedono, qualche idea forse sì.
I bonus introdotti per sostenere la scuola paritaria in Italia non spiccano nella legge di stabilità in termini né assoluti né relativi: non giungono – almeno per ora – a fare realmente la differenza nel bilancio di una famiglia media che voglia “scegliere” una scuola paritaria per i propri figli. Però il segnale politico-culturale non può essere trascurato. Anche in un bilancio pubblico combattuto da recessione e rigorismo europeo, la boa della choice è stata mantenuta sulla superficie agitata della finanza pubblica e della politica scolastica italiana. E non c’è alcun dubbio che – per quanto limitate – siano risorse destinate all'”investimento”. E chissà se i 18enni cui il governo mette oggi in tasca 500 euro da spendere in un digital store o in un teatro, non preferiranno – fra pochi anni – che gli stesso quattrini siano lasciati loro in tasca per mandare i figli nella scuola che preferiranno.