“Gli incentivi agli investimenti industriali privati erano dovuti, hanno spinto la ripresa e hanno soprattutto fronteggiato la crisi di produttività che affligge l’Azienda-Italia da prima della grande recessione. Quegli incentivi sono ora al massimo e non possono essere sostenuti nel periodo medio-lungo. Dopo aver aiutato il fattore-capitale, dobbiamo tornare a sorreggere il fattore-lavoro”. Così Enrico Morando, viceministro all’Economia, ha commentato l’ossatura delle manovra di bilancio 2018 durante il tradizionale seminario autunnale Gi Group sulle prospettive della politica del lavoro, mentre a Palazzo Chigi era in corso il Consiglio dei ministri che ha dato via libera al disegno di legge finanziaria.
Nella versione finale hanno avuto risalto l’intervento a favore dell’occupazione giovanile (sgravi al 50% per tutti i neo-assunti che abbiano meno di 34 anni) e nuovi stanziamenti per il reddito d’inclusione a supporto delle famiglie piu’ bisognose. Sono stati confermati per un anno gli stimoli di “Industria 4.0” (con una leggera sforbiciata al super-ammortamento) e sono stati introdotti crediti fiscali per la “Formazione 4.0” collegata agli investimenti in digitalizzazione. In una manovra in parte agevolata dalla Ue e dedicata peraltro al disinnesco della clausole di salvaguardia che avrebbero fatto aumentare l’Iva, è stata comunque scavata una dote molto consistente per i rinnovi contrattuali nella Pa.
Il budget 2018 sembra dunque esser aver preso forma all’insegna di un certo equilibrio, nella cornice ancora stretta delle compatibilità di finanza pubblica, nonostante un piccolo margine di flessibilità supplementare concesso dalla Ue. Eppure qualche interrogativo rimane: tanto più se il vice di Piercarlo Padoan, a fine 2017, imposta ancora una riflessione di politica finanziaria nell’ambito della tradizione matrice otto-novecentesca “capitale versus lavoro”.
Nessuno può dubitare che la disoccupazione giovanile sia un’emergenza drammatica (ma proprio per questo non dovrebbe essere letta e affrontata in termini congiunturali). Analogamente, è comprensibile che il governo pensi a provvedimenti immediati per lo stato di povertà assoluta nel quale la più lunga recessione italiana di sempre ha precipitato milioni di famiglie. E non è il caso di attardarsi a misurare quanto un governo in carica negli ultimi cinque anni abbia disegnato o meno una manovra attenta al suo elettorato, a quattro mesi dalla resa dei conti nell’urna.
Il punto, un primo punto, è invece veder ancora presentare come contrapposti provvedimenti come “industria 4.0” e come il taglio del cuneo previdenziale pro-assunzioni. Gli incentivi allo svecchiamento del parco-macchine e alla digitalizzazione sono un sostegno agli “imprenditori” (“capitalisti”) o piuttosto alle “imprese”, alla “manifattura nazionale”? Siamo certi che un imprenditore italiano (figura molto diversa da un fondo d’investimento) sia più stimolato ad assumere da uno sgravio contributivo o da un’agevolazione alla trasformazione tecnologica dei suoi sistemi produttivi? Perché il governo annuncia già la decelerazione di “Industria 4.0” al secondo dei cinque anni che lo stesso ministro per lo Sviluppo economico Calenda ha identificato come orizzonte strategico per il sistema-Paese? Quanto pesa la “paura dei robot”, in realtà è la fatica di dire ai giovani italiani che un lavoro vero impone studio, studio e ancora studio? Non spunta un sottile residuo ideologico quando il rilancio del taglio del cuneo viene associato automaticamente alla riduzione tendenziale dei cosiddetti “incentivi al capitale”? E’ qui che s’innesta un secondo interrogativo, più scarno ma non meno: perché nell’Italia nel 2018 si mettono ancora in competizione “capitale” e “lavoro” nel settore privato per stanziamenti pubblici e si mantiene l’antico postulato della “variabile indipendente” per gli aumenti retributivi della Pa?