La sfida all’educazione cattolica

In Spagna fa discutere l'idea di valutare gli studenti anche sull'ora di religione insegnata in classe. Uno spunto di riflessione, per FERNANDO DE HARO, sulla laicità

Dagli inizi del XIX secolo la “questione religiosa” ha segnato la vita politica spagnola e ora riemerge con forza in questo inizio di nuovo millennio. Fortunatamente la Costituzione del ’78 ha fatto sì che l’anticlericalismo che aveva fatto esplodere la Seconda repubblica rinunciasse alle sue pretese e che la Chiesa mettesse in chiaro che non voleva invocare il diritto divino nel dibattito legislativo. In ogni caso la polemica si riapre regolarmente grosso modo ogni sei mesi, perché la ferita non si è chiusa. 

L’ultima occasione è stata fornita dall’insegnamento della religione nelle scuole. Il Governo potrebbe ridurlo a un’ora alla settimana. Tuttavia, a differenza di quanto avvenuto coi governi socialisti, ci sarà una valutazione per gli studenti. La polemica è nata perché si terrà conto se gli alunni sanno “valorizzare e gradire il fatto che Dio li ha creati per essere felici e, allo stesso tempo, riconoscere l’incapacità della persona di raggiungere con le sole proprie forze la felicità”.

El Pais, in un recente editoriale, ha scritto che “siamo di fronte a una questione retrograda”, perché si assume la “rivelazione come fonte di verità”. Né la Chiesa, né qualunque altra religione, veniva spiegato, possono avere la competenza per stabilire i termini della questione. I contribuenti, inoltre, non possono pagare un’attività che non è di interesse generale. Ci troveremmo di nuovo di fronte al confessionalismo del franchismo. Il quotidiano, però, non menzionava il fatto che la materia viene scelta liberamente dagli studenti.

Il dibattito sul contenuto della materia appare assurdo. Se la Chiesa cattolica o i musulmani hanno una materia è logico che siano loro, nei limiti costituzionali, a stabilirne le linee guida. Diversamente non ci sarebbe una lezione di religione, ma di religione secondo l’interpretazione dello Stato. Il vero tema del dibattito, quindi, è se una democrazia laica debba accettare una materia con queste caratteristiche nel sistema educativo pubblico: questa materia può essere considerata di interesse generale?

Qualcuno ancora pensa che la risposta sia no, per la semplice ragione che il fatto religioso viene considerato di per sé qualcosa di pericoloso per la vita comune. È un modo molto antiquato di interpretare la necessaria separazione tra Chiesa e Stato. Tuttavia, nelle democrazie liberali è sorta una concezione più ricca di tale questione che è senza dubbio complessa. Ora siamo più coscienti del fatto che pubblico non vuol dire statale. Uno Stato aconfessionale non implica quindi una società obbligatoriamente non religiosa. Di fatto questo secolo si sta trasformando nel più religioso dell’epoca moderna. E nel pensiero politico ci sono figure di spicco, come Rawls e Habermas, che sottolineano il grande apporto fornito dall’esperienza religiosa alla vita comune.

Le moderne società, assetate di ragioni ed esperienze che sostengano la convivenza sociale e i valori costituzionali, sono più intelligenti quando ricevono il sostegno civico che nasce dalla fede, quando valorizzano la ricchezza di tutto quello che riempie di contenuto questo mondo pre-istituzionale sui cui la democrazia si fonda. Per questo la lezione di religione cattolica, musulmana o di qualunque altro credo può essere riconosciuta, al di là dei pregiudizi, come un’attività di interesse generale. 

Ora più che mai la democrazia occidentale ha bisogno di “ancore” pre-politiche. Per questo, come dice il giurista Ruiz Soroa, il fatto che “i padri possano chiedere allo Stato il sostegno per far sì che la religione che preferiscono venga insegnata ai propri figli nella scuola pubblica è una facoltà che non contraddice il carattere laico dello Stato”. È una ricchezza e un diritto. Lo ha ricordato recentemente l’Assemblea del Consiglio europeo nella risoluzione 2036 (2015) con cui ha ribadito che i genitori hanno il diritto a educare i figli secondo le proprie convinzioni.

Tuttavia, e questo è il grande problema, il fatto che ci sia una materia di religione cattolica non garantisce automaticamente che ci sia un insegnamento cattolico nelle scuole. Per decenni e per secoli la Chiesa cattolica in Spagna ha avuto, e ha ancora, una grande presenza nel mondo della scuola senza che questo abbia portato per molti studenti a un incontro con il cristianesimo o alla trasmissione di una fede capace di affrontare tutte le circostanze. Gli spagnoli (dobbiamo riconoscere quel che diceva Benedetto XVI) rappresentano il fallimento dell’educazione cattolica. Un’educazione che per troppo tempo ha significato la ripetizione di dottrina, di valori morali, e che difficilmente è riuscita a rendere presente quel che è proprio del cristianesimo: un avvenimento che riempie di allegria e di ragioni la vita, un incontro che si abbraccia come il più conveniente per l’esistenza.

Se l’ora di religione consiste nel memorizzare preghiere o studiare principi morali diventa controproducente. Sarà invece utile solamente se si assume il rischio di educare integralmente, se si sfida la libertà degli studenti, se non si cerca consensi acritici e si dota i giovani di un metodo con cui mettere intelligentemente alla prova tutto, compresi i dogmi che si propongono. La lezione di religione vale la pena se è davvero religiosa, se è l’espressione del punto più aperto della ragione.

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