Parità: in certi momenti sembra “irraggiungibile” e quello di oggi sembra uno di quei momenti. Leggendo alcuni interventi del dibattito apertosi in tempi recenti a seguito delle possibili nuove norme sul redditometro e sui tagli per l’intervento finanziario tendente alla correzione del bilancio e altri sentiti durante l’ultimo convegno tenutosi a Montecitorio, sembra essere tornati indietro di oltre 10 anni o meglio, sembra che non si voglia tener conto dell’intenso dibattito culturale sul tema della parità scolastica che ha prodotto, tra l’altro, anche una legge, la 62/2000, di cui molti sembra vogliano dimenticare l’esistenza.
La legge 62, nonostante le sue imperfezioni, ha introdotto un principio fondamentale: “Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, secondo comma, della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali” (art. 1), ma il principio non ha avuto corretta e completa attuazione nella conseguente normativa derivata.
I problemi aperti sono molti e chi opera nel settore della scuola paritaria sa quanto decreti, ordinanze e circolari spesso non siano in linea e non rispettino pienamente il principio di parità. Questa consapevolezza ha portato il gruppo di lavoro per la parità, istituito dal ministero, a chiedere una rilettura e una revisione della normativa vigente alla luce del principio di parità, al fine di ottenerne una correzione. Una revisione che, purtroppo, non è ancora iniziata.
La piena parità si costruisce come un poliedro a più facce: pari dignità dei docenti, pari dignità dei dirigenti, pari dignità delle istituzioni, pari dignità degli studenti, eliminazione di discriminazioni economiche e normative, libera scelta dei genitori, gratuità nell’assolvimento dell’obbligo scolastico…
Una problematica complessa la cui soluzione è “inquinata” dal pregiudizio ideologico per il quale nonostante le scuole paritarie svolgano una funzione pubblica (ormai riconosciuta da quasi tutti), nonostante facciano parte dell’unico sistema nazionale (sancito per legge), come ricordato dal Presidente Fini – e non solo – nel citato convegno, famiglie, studenti, docenti, dirigenti, gestori delle scuole paritarie sono, di fatto, considerati “figli di un dio minore”.
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Se si dovesse prendere alla lettera il principio espresso dalla legge 62/2000 la piena parità si otterrebbe seguendo un semplice assioma: su ogni situazione parità di diritti e doveri rispetto alle scuole statali, quanto è concesso agli uni dovrebbe essere analogamente concesso agli altri.
Un esempio? Perché una scuola paritaria deve trovare ostacoli ad aumentare le classi di fronte ad un aumento di iscrizioni? Perché un dirigente di scuola paritaria non può svolgere la funzione di presidente di Commissione all’esame di Stato nonostante lunga esperienza e carriera? Perché le leggi di riforma non distinguono con chiarezza le norme di impostazione generale dalle norme organizzative che riguardano solo le scuole “gestite” dallo Stato?
Perché il tutor per la formazione iniziale (Regolamento in approvazione) deve essere un “docente di ruolo”? Perché uno studente portatore di disagio perde il diritto al sostegno se si trasferisce da una scuola statale ad una scuola paritaria? Perché l’assolvimento dell’obbligo è gratuito solo per chi frequenta una scuola statale (nonostante il dettato costituzionale)? E potremmo continuare.
Questa impostazione, a dir poco non corretta, nasce dalla convinzione che alcune scuole non statali non funzionano bene (ma tutte le scuole statali funzionano bene?) e dalla presenza di altre che sono considerate “diplomifici”. La conseguenza è stata spesso quella di “fare di ogni erba un fascio” e far cadere a livello istituzionale e politico la “fiducia” verso tutto il settore con conseguente emanazione di norme spesso “liberticide” o, comunque, non allineate con il principio di parità.
Un’impostazione sbagliata che impedisce al nostro sistema scolastico di usufruire di tutti i benefici che gli porterebbe, in modo sinergico, una piena parità.
Perché allora non provare ad affrontare il problema alla luce della normativa vigente e dei diritti che da essa derivano a tutti i cittadini? Se così affrontato, perché non avere l’onestà intellettuale di accettarne, fautori e detrattori, le conseguenze giuridiche? Siamo o non siamo uno Stato di diritto?
Metto da parte, per il momento, l’annosa questione dei finanziamenti, come detto non è il momento propizio visto che tutti “dobbiamo tirare la cinghia”, ma evidenzio come potrebbe essere affrontato: con un taglio diverso rispetto alla vecchia impostazione trita e ritrita e demagogica del “dare i soldi alle scuole dei preti”.
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Che diritti ha un cittadino italiano riguardo a questo problema? Se analizziamo la Costituzione, l’art. 33 comma 4 recita “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”,che incrociato con l’altro dettato costituzionale, quello previsto dall’art. 34 comma 2 “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita” fa scaturire un mix giuridico interessante e da molti sconosciuto. È il cittadino italiano che ha il dovere di assolvere l’obbligo scolastico ma anche il diritto di poterlo assolvere gratuitamente.
Dove assolverlo? La Costituzione non lo dice, ma credo che la risposta sia: in una scuola del sistema nazionale di istruzione e, “anche se nasce dalla statualità” – come affermato dall’onorevole Mazzarella al convegno di Montecitorio, dopo la pubblicazione della legge 62/2000, di questo sistema fanno parte, a pieno titolo, le scuole paritarie ai cui studenti, guarda caso, la Costituzione riconosce il pieno diritto ad un trattamento equipollente rispetto agli studenti frequentanti la scuola statale.
So che è un’impostazione “fastidiosa” che può provocare qualche “arricciamento di naso” e più, anche a qualche operatore della scuola paritaria, ma ritengo sia la vera strada trasparente e corretta su cui aprire un dialogo basato non sul diritto delle scuole, ma sul diritto del cittadino. D’altra parte se nuovamente vogliamo imboccare la strada verso la graduale “conquista” della parità occorre lasciare i vecchi stereotipi e usare metodi e linguaggio nuovi.