Dopo gli scandali – in larga parte ancora oggetto d’indagine – che hanno coinvolto negli ultimi anni gli amministratori di alcune regioni, c’è chi si è affrettato a dire che il debito del nostro Paese ha origine soprattutto negli enti locali e che per far tornare i conti a posto occorre riportare il più possibile sotto il controllo dello Stato centrale alcune funzioni esercitate dalle Regioni.
E’ ciò che in parte si propone il progetto di riforma della Costituzione votato questa settimana alla Camera: oltre a voler rafforzare il Governo ed eliminare il bicameralismo perfetto, incide sull’assetto costituzionale dei rapporti tra Stato centrale e Regioni riportando in capo al primo alcune competenze finora affidate alle seconde. La necessità di riformare questo importante settore dell’attività pubblica deriva anche dagli squilibri che si erano creati tra i diversi livelli di governo sul piano organizzativo e su quello finanziario, a seguito della riforma del titolo V che quasi quindici anni fa aveva accentuato fortemente i poteri legislativi delle Regioni e introdotto il principio di sussidiarietà per le funzioni amministrative.
Il riaccentramento delle competenze in capo allo Stato previsto dalle nuove norme costituzionali porterà inevitabilmente ad accentuare l’uniformità tra le Regioni, sottovalutando il fatto che esiste un panorama estremamente variegato che comprende punte avanzate e punte decisamente arretrate di efficacia ed efficienza nella gestione della cosa pubblica a livello locale. Ci sono Regioni con meno abitanti di un quartiere di Milano e di Roma e Regioni con una popolazione più numerosa di alcuni Stati europei; Regioni in cui il rapporto spese sanitarie/pil è molto più basso della media nazionale e internazionale e Regioni che non sono neanche in grado di fare i conti; Regioni con una formazione professionale innovativa e Regioni in cui essa è usata per occupare in modo clientelare persone che non si sanno occupare altrove. E ancora, c’è una naturale differenza di tradizioni ed esperienze tra le regioni e i territori italiani che è un valore e che una legislazione emanata in sede regionale tende a rispettare e a valorizzare: perché uniformare tutto?
Il riaccentramento proposto dalla recente riforma è l’unica strada per porre fine alle difficoltà o alle storture di alcune Regioni? Diversi motivi fanno propendere per una risposta negativa.
Il primo è che, se è vero che tutti i Paesi federali presentano alternanze tra la tendenza all’autonomia dei livelli locali e il riaccentramento delle relative funzioni (o almeno di quelle che si rivelano problematiche se lasciate sotto il governo della periferia) è vero che soprattutto nel nostro Paese il centralismo di fatto ha dominato anche nelle fasi in cui la norma costituzionale indicava un assetto di poteri a favore del livello ragionale e locale; basti pensare che, pur sotto il dominio della riforma costituzionale del 1999/2002, la giurisprudenza costituzionale che decideva sui conflitti di competenza tra Stato e Regioni ha sempre agito come freno al decentramento. Non a caso, in proposito si dice che la Corte, di fatto, ha praticamente riscritto la Costituzione.
Inoltre, se i numeri non sono una pura opinione, anche gli statalisti più accaniti devono ammettere che le storture della spesa pubblica dal 1980 in poi in termini di pensioni, di rivoli di spesa clientelare, di assunzioni di personale pubblico in eccesso nei più diversi settori sono dovuti soprattutto al potere centrale.
Ciò che si dovrebbe fare, piuttosto, è riformare l’impostazione regionale: alcune Regioni non hanno più senso di esistere e andrebbero accorpate ad altre in macroregioni; altre andrebbero sanzionate o private di competenze che non sanno usare; andrebbero evitati invece i tagli orizzontali che ripianano i conti a chi scialacqua e fermano l’azione di chi opera bene. Tutto quanto era progettato in termini di sussidiarietà fiscale e costi standard poteva essere utilmente usato come già si comincia a fare per le università e i trasporti locali. Ignorare queste possibilità appare una scelta pressappochista.
Un ulteriore motivo richiama alla mente la giusta polemica emersa qualche anno fa e purtroppo fagocitata dalla retorica di qualche partito che impossessatosene non ne ha fatto vero motivo di azione. Chi può credere che se i direttori generali delle Asl saranno decisi dal Ministero della salute efficacia e efficienza cresceranno? E perché accomunare la formazione professionale clientelare di qualche Regione con quella di altre che funziona? O perché levare la possibilità di compiere opere pubbliche a Regioni che hanno migliorato a costi bassi la loro rete infrastrutturale? Il futuro delle Regioni del Sud è nel rapporto con l’area mediterranea, quello del Nord nel rapporto con la mitteleuropa: solo rispettando la diversità si tiene unita l’Italia. Rinunciare a entrare nel merito delle specificità che la realtà porta con sé, ci condanna a sostituire la ragione con il tweet.
Una cosa su tutte vale la pena non dimenticare: la ripartizione del potere tra diversi livelli territoriali è essenziale per realizzare quella vicinanza dei governati ai governanti, valore fondamentale della democrazia.