Quaresima è tempo, tra l’altro, di digiuno. Al riguardo ho letto una frase spiazzante di san Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna nel V secolo e Dottore della Chiesa: «Quanto col disprezzo abbiamo perduto, conquistiamolo con il digiuno». Dico che questa frase è spiazzante per varie ragioni. Innanzitutto perché l’azione che si fa col digiuno viene definita col verbo «conquistare». Il digiuno operativamente è una rinuncia, una perdita, un abbandono, una diminuzione, un contenimento, ma non è dal Crisologo ultimamente finalizzato a questo suo aspetto negativo, bensì ad una conquista, quindi ad un incremento, ad un accrescimento. Fin qui riusciamo ancora a capire con una certa facilità: in una società di sovralimentati diminuire grassi o zuccheri non può che far bena alla salute; in un contesto di sovraesposizione mediatica staccare la spina della tivù o del pc per dedicarsi ai rapporti umani, alla lettura o, meglio, al silenzio è senz’altro favorevole all’equilibrio personale e familiare.
Però, se fosse solo così, si tratterebbe più di una dieta che di un digiuno; utile per carità, ma non credo che sia questa la conquista che la Quaresima propone.La conquista cui siamo invitati non è neppure semplicemente l’irrobustimento del carattere o il temperamento della personalità; non ci viene suggerito: fai un po’ di rinunce per imparare a dominarti, per essere pronto in caso di difficoltà, per sapere resistere quando verranno le vacche magre; sarebbe tutto sommato una prospettiva minimalista. Il santo Dottore ci dice, invece, che il digiuno serve a conquistare «quanto col disprezzo abbiamo perduto». C’è dunque qualcosa di importante, di prezioso che non abbiamo valutato a sufficienza; che, anzi, abbiamo disprezzato e, quindi perso. Questo bene si tratta di riconquistare col digiuno. Stiamo all’esempio più comune del cibo; cosa posso aver disprezzato – e quindi perso – di fronte a un piatto che mi piace molto su cui mi sono avventato? Da un lato la mia libertà, travolta dall’affanno di mangiare, e dall’altro il gusto del piatto stesso. Entrambe le cose sono riconquistate dal distacco che il digiuno impone.
Ecco, forse è proprio questa – «distacco» – la parola più adatta per spiegare la dinamica cui ci richiama il Crisologo. In ogni rapporto – e tanto più quanto più esso appare interessante e carico di valore: dal cibo al tempo, dagli estranei agli amici a Dio stesso – siamo tentati di avere un «disprezzo» che si esprime come possessività istintiva, come un buttarsi irragionevole, come ultima strumentalizzazione. Tale possessività ci fa perdere noi stessi e l’altro – persona o cosa – con cui siamo in rapporto. L’antidoto è il distacco voluto, nel quale l’altro risplende in tutta la sua bellezza – invece di essere disprezzato – e noi siamo liberi nella devozione che gli attribuiamo. Il digiuno – facendoci imparare questo giusto distacco – educa, dunque, alla libertà e consente l’esperienza di conquistare un gusto più forte e duraturo.