Guardare la morte con dolcezza

La morte è un passaggio da una sponda ad un'altra. Si può guardare con dolcezza al morire? Lo ha fatto Giovanni Segantini nella sua "Ave maria a trasbordo". GIUSEPPE FRANGI

È un quadro talmente bello che gli si può perdonare il fatto di essere “poco moderno” rispetto a quanto altrove si dipingeva nel momento in cui venne dipinto. Questo quadro è la “Ave Maria a trasbordo”, che Giovanni Segantini realizzò in due versioni tra il 1882 e il 1886; la seconda, quella giustamente più celebre, è conservata al Museo di Sankt Moritz a lui intitolato. Nel 1886 a Parigi succedevano cose straordinarie (vi lavoravano ad esempio Cézanne, Monet, Gauguin, Seurat, arrivava Van Gogh), cose destinate ad accendere una luce nuova nella pittura. Segantini era un uomo caparbiamente solitario, legato ad un mondo che, in confronto a quello parigino, appare marginale e arcaico. Durante la sua permanenza in Brianza (era nato in Trentino) aveva impostato questo soggetto che giustamente è stato messo in relazione con l'”Addio monti” di Manzoni, per quel suo carattere intensamente struggente. 

Si vede una famiglia su una barca, con tanto di gregge di pecore a bordo, che attraversa il lago all’ora dell’Ave Maria. Il lago è quello di Pusiano, e la chiesa che si vede in fondo sulla sponda è proprio quella del paese da cui il lago prende il nome. Sono le sei della sera di un giorno presumibilmente di fine estate, e si vede un sole al tramonto che scendendo dietro la linea delle basse colline, accende di luce omogenea il cielo, come un’aureola calata a coronare la terra. Il “trasbordo” è evidentemente riferito alle pecore che vengono portate ad altri pascoli. 

Ma perché guardare e parlare di questo quadro oggi, nel giorno in cui si ricordano i morti? Perché l’immagine così emozionante e tesa di questo “trasbordo” non può essere letta semplicemente come una transumanza stagionale dai pascoli d’altura a quelli di pianura. 

È un qualcosa d’altro di cui Segantini ci vuole parlare, ed è proprio questo qualcosa d’altro che dà tanta profondità al quadro. La sua forza è proprio nel suo contenuto metaforico: è un’immagine che racconta di un passaggio da una sponda ad un’altra. Racconta di un viaggio che è iniziato da una riva che è alle nostre spalle e che approda là dove il sole, pur al tramonto, mostra una energia luminosa che travalica le logiche di natura: quel sole probabilmente è il luogo del destino. Volendo infatti stabilire dei paralleli, i suoi raggi sembrano un’eco pudica, quasi solo sussurrata, dello sfolgorante irradiamento d’oro del Paradiso immaginato da Beato Angelico per un suo fantastico capolavoro, l'”Incoronazione della Vergine” custodita oggi agli Uffizi. 

Se il quadro avesse poi anche il sonoro (un sogno che tanti pittori hanno covato…) udiremmo le note dell’Ave Maria suonata dal campanile lontano e le parole di quella sussurrata da chi è a bordo. In particolare udiremmo quel versetto finale che è l’implorazione a Maria di esserci presente, di pregare per noi, nell'”ora della nostra morte”. Così il senso di questo quadro, grande nella sua umiltà, si completa. È un quadro che ci parla della morte come di un transito, più che di una frattura; un quadro che evoca poeticamente l’idea di una continuità misteriosa tra questa vita e l’altra vita.  

Si può guardare con dolcezza al morire? La Chiesa, suggerendoci la recita dell’Ave Maria, in fondo per tutta la vita ci prepara a vivere così quel passo, rimediando al nostro “non volerci pensare”. Siamo inconsapevolmente recalcitranti, ma qualcuno per fortuna ci prende per mano, anche accettando il modo un po’ automatico con cui quasi sempre ripetiamo quelle parole… L’Ave Maria a trasbordo di Segantini racconta proprio questa esperienza del morire di ogni giorno. O meglio, mette in figura la coscienza di quel morire. Un morire che diventa sopportabile e vivibile grazie alla dolcezza di una preghiera semplice.

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