“Signori accomodatevi, dobbiamo parlare”. Per l’ennesima volta i genitori di uno studente di scuola superiore vengono convocati a scuola. Il ragazzo crea problemi disciplinari, non si impegna e disturba gli altri. Il dialogo con l’insegnante (una mia amica) sembra non portare da nessuna parte, quando ad un certo punto lei taglia corto: “scusate, ma secondo voi, la scuola a cosa serve? Il nostro scopo qui è ben più grande che insegnare a fare cose giuste e a non fare cose sbagliate ai vostri figli. Noi siamo qui perché i vostri ragazzi imparino ad utilizzare gli strumenti della conoscenza — ma non solo — per crescere, diventare se stessi, scoprire la loro personale strada nella vita”.
Posso solo immaginare quanto un genitore aspetti, anche inconsapevolmente, di sentirsi dire una cosa del genere, quanto desideri avere dei complici in quello che è uno dei compiti più grandiosi della vita: “tirare su” un altro essere umano. Eppure quei genitori sono rimasti stupiti dall’uscita della mia amica. Non se l’aspettavano. Avevano dimenticato il senso ultimo di una scuola.
Di recente migliaia di studenti sono scesi in piazza in tutta Italia per manifestare contro l’alternanza scuola-lavoro, cioè l’inserimento di tirocini lavorativi all’interno del percorso didattico, obbligatorio dal 2015 per tutte le scuole superiori. I giovani accusano sopratutto il fatto che le attività a cui sono destinati non sono formative e che non sono in linea con i loro percorsi di formazione, cosa che li fa sentire manodopera gratuita sfruttata dalle aziende. Non posso biasimarli. E non perché le aziende non elargiscono loro uno stipendio. Il tirocinio è pensato come un momento di formazione, in cui i ragazzi dovrebbero avere la possibilità di accrescere capacità trasversali, quali collaborazione, problem solving, comunicazione con estranei, curiosità. Le più preziose oggi perché sono condizioni essenziali per continuare ad apprendere in un mondo in cui tutto cambia in fretta. Gli studenti che manifestavano nelle strade delle città italiane hanno ricordato a tutti una cosa fondamentale: se non c’è un soggetto (insegnante, tutor, datore di lavoro) che ha chiaro cosa devono imparare e come, semplicemente non c’è formazione.
Spesso tra i ragazzi si sente dire: il lavoro è per davvero, la scuola è per finta. Ed è così perché purtroppo, molto spesso, non hanno vicino qualcuno che faccia capire loro quale grande scopo ha la scuola. Anche i tirocini dell’alternanza scuola-lavoro potrebbero essere una grande occasione educativo-formativa se chi li guida fosse adeguatamente preparato e motivato (e mi chiedo per quale scopo più grande si dovrebbe essere preparati e motivati).
Ma cosa potrebbero imparare i ragazzi nel mondo del lavoro? Provo a lanciare qualche idea.
Innanzitutto che il lavoro non è una “commodity”, un bene indifferenziato, standardizzato, perché il lavoro umano, anche quello più ripetitivo, non è mai un meccanismo, ma è sempre legato ai desideri, all’immaginazione, ai bisogni di chi lo fa, e allo scopo che lo muove. Nessuno meglio di Saint-Exupéry ha espresso questo concetto con la famosa frase: “Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”.
Questa è la grande dignità del lavoro umano, unica nel creato: trasformare la realtà, per renderla più utile a sé, agli altri, all’ambiente. Imparare a scoprire lo scopo, ultimo o meno, che si cela dietro una mansione, che non è solo utilitaristico e di breve respiro, ma può essere un’idea di progresso e di bene: credo che questo oggi manchi ai ragazzi.
Il secondo punto riguarda il valore dell’esperienza. Il Cristianesimo ha portato nel mondo l’idea che è “tutto nuovo sotto il sole”, che la vita dell’uomo è un percorso di conquista, e non è un ripetersi continuo di cose da subire e senza scopo. Un approccio che è bene non perdere e che l’Alternanza potrebbe insegnare in un modo unico, non con un discorso come avverrebbe tra i banchi di scuola, ma attraverso esperienze particolari: la costruzione di un manufatto, di un prodotto industriale, di un servizio, come vendere in un negozio o fare la guida turistica. E’ sempre un particolare quello attraverso cui si scoprono principi generali che sono essenziali per orientarsi e “costruire” la propria vita.
Il terzo punto ha l’obiettivo di rendere consapevoli i ragazzi delle estreme semplificazioni e delle forti contrapposizioni che dominano la nostra epoca. Sono convinto che valga la pena che i giovani incontrino la realtà per quella che è, non per le sue rappresentazioni fittizie in bianco e nero, ma con le sue sfumature e i suoi compromessi (sperando che prima o poi le logiche della comunicazione vengano riviste). E un’esperienza lavorativa guidata può essere uno strumento fondamentale proprio per imparare a non ridurre riferimenti che teoricamente appaiono solo dicotomici e affrontare la complessità che la vita reale mette sempre davanti. Come “bellezza e utilità”, spesso messe in contrapposizione proponendo una bellezza senza utilità, che diventa estetismo, e quindi perde il suo gusto, e un utilitarismo che fa passare la bellezza come un lusso inutile. Un’altra dicotomia è “creatività e sacrificio”: lavorando si può imparare che la creatività non è pura spontaneità e che per comunicarla occorre anche sacrificio. Ma d’altra parte, è fondamentale lasciare liberi i ragazzi di esprimersi, altrimenti non scopriranno mai chi sono. E ancora, altro binomio, “risorse e limiti”. Intraprendendo un’attività lavorativa è più facile sperimentare quanto un limite possa costituire anche una risorsa. Sempre nella storia dell’umanità ciò che si è scoperto dipende dal fatto che l’inventore ha preso sul serio i limiti che incontrava. Pensiamo se in architettura non ci fosse l’enorme limite della gravità, quanta inventiva in meno ci sarebbe stata. Oppure al fatto che una famiglia debba vivere con un certo budget limitato fa si che le scelte siano pesate, che si riconosca il valore delle cose e le si tratti di conseguenza. Non avere il senso del limite (come facilmente accade a ragazzi ricchi e viziati) significa restare bambini e precludersi di essere creativi.
Il quarto obiettivo che i giovani possono sperimentare grazie a un tirocinio lavorativo è l’idea di vita come progress. Lavorando lo si può capire perché si viene misurati su un esito preciso, che però domani sarà superato perché nel frattempo avrò fatto dei passi avanti, avrò imparato qualcosa di nuovo. E’ importante perché i ragazzi non si facciano bloccare da un’idea di perfezione astratta, ma vivano ogni passo come punto di un percorso sempre perfettibile.
Un quinto e ultimo punto, evidente ma non scontato, può essere quello di aiutare i giovani a prendere coscienza delle proprie capacità e a misurarle per lo scopo che devono raggiungere. Come nello sport, non si può impostare un programma di maratona se si devono correre i 10.000 metri e, d’altra parte, bisogna mettere a fuoco il proprio miglioramento. Anche nel lavoro occorre capire cosa dare oggi e cosa domani.
Infine una domanda: siamo sicuri che, adeguatamente guidati, i ragazzi non possano apprendere tutto questo, e altro ancora, anche friggendo le patatine al McDonald’s?