Donald Trump è sbarcato a Tokyo con il regalo ingombrante uno scudo militare anti-Nord Corea (cioè anti-Cina) e rimbrottando subito il premier Shinzo Abe perche il Giappone “da decenni beneficia di vantaggi impropri negli scambi commerciali”. Ha usato un’argomento classico: le auto giapponesi vendute negli States sono sempre molte di più di quelle commercializzate in senso inverso. Ha suggerito come correttivo un suo cavallo di battagliia: se vogliono operare nel mercato americano i costruttori giapponesi devono produrre in Usa occupando americani. E Trump, com’è noto, ha parlato mentre i bombardieri strategici Usa sorvolavano l’area calda fra Giappone, Cina e Coree, minacciosamente un po’ per tutti.
L’immagine è stata comunque plastica di come un processo apparentemente irreversibile di liberalizzazione del commercio mondiale sia a un punto morto, forse in sostanziale retromarcia. Sembra lontanissimo il vertice-kolossal di Pechino 2014, dove un faccia a faccia fra Barack Obama e Vladimir Putin – sotto l’occhio del presidente cinese Xi Jinping – poteva ancora aver luogo sotto l’egida Apec: un tavolo attorno al quale 21 paesi affacciati sul Pacifico si dicevano impegnati a cooperare a uno sviluppo economico corale della macro-area.
Meno di due anni dopo Trump, fra i suoi primi atti da presidente, ha ritirato gli Usa dalla Trans Pacific Partnership. L’accordo di libero scambio, firmato in Nuova Zelanda nel 2016 dopo sette anni di negoziati fra fortemente spinti dall’amministrazione Obama, impegnava il 40% del Pil mondiale generato da 12 paesei, fra Canada e Cile, fra Giappone e Australia, passando per il Brunei e Singapore. La Casa Bianca democrat non aveva dubbi: la crescita socio-economica e e la stabilità geopolitica potevano passare solo da qui. Soltanto un nuovo e deciso passo in avanti nel multilateralismo avrebbe sollecitato anzitutto la Cina a inserirsi in una globalizzazione positiva e avrebbe mantenuto in cima al discorso pubblico internazionale lo sviluppo sostenibile, rinvigorito fra l’altro dall’enciclica “Laudato Sì” di Papa Francesco. Un’idea di mondo in cui la libertà d’impresa in un libero mercato (libero perché grande e riconosciuto da tutti nelle sue regole) continua ad essere annunciata assai più come un “diritto umano” che come format di competizione darwiniana.
Ma anche altrove per il liberoscambismo sembra pieno inverno: anzitutto per quello “2.0” che affiancava al TPP il gemello TTIP, per formare un mercato unico fra Usa e Ue. Più di un anno fa la Germania ha dichiarato “falliti” i colloqui: troppi – una cinquantina – i fronti di attrito commerciale aperti fra le due sponde dell’Atlantico. Troppe – fra l’altro – le ruggini lasciate fra America ed Europa, dalla crisi finanziaria globale. Troppe le incomprensioni latenti sul muro (commerciale) alzato dalla Ue verso la Russia dopo la controversa crisi ucraina, sotto i fari Usa. Un altro frangente in cui la diplomazia militare ha prevaricato su quella economica nel peggioramento delle relazioni internazionali.
L’Unione europea stessa, del resto, pensa di ridividersi “a due velocità” al suo interno, avendo quasi dimenticato che la ricostruzione pacifica nel dopoguerra ebbe due punti di partenza: il piano Marshall (l’accettazione dell’aiuto economico degli Stati Uniti) e la Ceca, il primo mercato unico quando carbone e acciaio erano beni strategici per l’industria. E quale futuro immediato è possibile immaginare – su questo sfondo – per il protocollo commerciale Fra Ue e Giappone, definito in linea di principio – lo scorso luglio?
Sul tavolo, nel frattempo, resta la “Nuova Via della Seta”: l’iniziativa strategica della Cina per favorire l’integrazione dell’Eurasia. Il piano “Obor” (one belt, one road) nella sue dimensione estesa terrebbe assieme Cina e Ue, Russia e India, Egitto e Arabia Saudita, Etiopia e Indonesia. Non è (almeno non ancora) un progetto di “mercato unico”: il suo concept è una maxi-rete infrastrutturale tradizionale, sulla quale far scorrere merci e persone. Non ha avuto un’origine multilaterale: è una proposta della Cina, che ancora una volta non sembra far nulla per nascondere le peculiarità di un sistema non liberale, che si concepisce più come potenza in espansione che come parte di una comunità globale. Ma così com’è accaduto per gli Accordi di Parigi sul Clima – osteggiati dall’America di Trump e difesi da Pechino – anche sul terreno dell’integrazione economica paradosso vuole che le patrie della libertà politico-economica stiano perdendo il loro primato culturale.