Tra poco New York si riempirà di auto nere e scorte, delegati e leader. Sarà piuttosto caotica, soprattutto nel quartiere centrale di Manhattan, dal lato del fiume Hudson, l’area delle Nazioni Unite, dove non si troverà posto negli alberghi. È sempre così quando si svolge l’Assemblea generale dell’Onu, prevista ordinariamente da settembre a dicembre. Naturalmente i numeri uno, presidenti e premier o loro rappresentanti, si vedono solo per la plenaria, il resto del lavoro è affidato a sei comitati principali. È il tempo dei cosiddetti sherpa, quelli che studiano (e portano) carte giorno e notte, scrivono, preparano, verificano, confrontano. Tante volte i numeri uno non fanno altro che confermare e sigillare il lavoro degli sherpa, senza i quali altro che vertici e summit e documenti approvati.
Mano a mano che si avvicina l’Assemblea cresce l’agitazione tra le diplomazie. E quest’anno c’è una ragione in più per i nervosismi e le tensioni. Vero, l’Onu è un gigante malato, logoro e inefficace, tutti vorrebbero riformarla radicalmente ma nessuno trova il consenso sufficiente per farlo – almeno non sulla base delle proprie idee. D’altra parte sarà anche una istituzione esanime, ma non esiste altro punto di incontro per le nazioni del mondo. Che infatti in quella grande sala della plenaria e nelle centinaia e centinaia di stanze e luoghi che “fanno” il sistema Onu, ristoranti inclusi, si battono strenuamente per far passare la propria posizione o rintuzzare quella altrui. Si pensi all’importanza della risoluzione sulla Libia, che verrà ricordata come una vera e propria “ferita” inferta alla credibilità dell’Onu, poiché è diventata l’arma del rovesciamento e (forse) dell’eliminazione di Gheddafi quando limitava l’intervento armato alla creazione di una no-fly zone, e al fatto che se sulla Siria il mondo dà l’impressione di non agire e proprio perché all’Onu non vengono prese adeguate misure.
Un organismo pieno di acciacchi, eppure indispensabile. Tra qualche giorno tutto il sistema entrerà in fibrillazione: qualche mese fa i palestinesi hanno annunciato che proprio all’Assemblea generale chiederanno il riconoscimento del proprio Stato autonomo. All’epoca il governo israeliano aveva strepitato accusando i palestinesi di “volere un bagno di sangue”, l’amministrazione Obama aveva dichiarato la sua contrarietà, ma in gran parte del mondo la mossa ha guadagnato simpatia. Perciò sul piano politico-diplomatico la vicenda si presenta molto spinosa, anche perché il cammino delle rivolte arabe resta tumultuoso e incerto e continua a non offrire spunti di chiarimento al conflitto israelo-palestinese. È noto che su di esso Egitto e Siria hanno ciascuno in modi diversi un pesante influsso, ma oggi è impossibile prefigurare la futura politica dei due Paesi al riguardo di Tel Aviv e Ramallah.
La discussione internazionale che inevitabilmente riporterà alla ribalta “la guerra più lunga” (quasi settanta anni), smuoverà qualcosa nella politica israeliana? È questa la domanda che circola, perché da troppo tempo Tel Aviv non offre una politica, ma soltanto una attesa. Dall’altro lato Hamas sembra accontentarsi dell’emirato sul quale regna pressoché incontrastata, impedendo ai suoi cittadini di uscire e agitando di quando in quando la bandiera anti-israeliana con lanci di razzi e azioni terroristiche che hanno lo scopo essenziale di scatenare la reazione avversaria. L’Autorità Palestinese intanto vivacchia e ha puntato tutto sulla prossima mossa. Ma il panorama è fosco e dopo gli attacchi frontalieri dell’altra settimana, dalle dinamiche misteriose, c’è chi teme, e tra questi i cristiani più attenti, un ulteriore peggioramento.
Del resto in questi dieci anni che ci separano dall’11 settembre 2001 è stato tutto molto difficile: le strategie politiche, le relazioni tra le religioni, il dialogo tra le culture, gli stessi rapporti tra gli uomini. Un tempo oscuro che a meno di un miracolo la prossima Assemblea generale non potrà dichiarare finito. Per farlo la politica mondiale dovrebbe sperimentare un altro metodo, totalmente impolitico, stanti le circostanze attuali. È il metodo dell’incontro. Il suo abbrivio, il suo punto di partenza è diverso: non i diritti reclamati reciprocamente e pur legittimi, non le ingiustizie patite e recriminate e certo verificate, non l’imperiosa necessità di vincere ad ogni costo, non l’inimicizia regolata da accordi sempre fragili; ma il riconoscimento umano. Che poi è alla base della stessa nascita delle Nazioni Unite e della Dichiarazione fondamentale dei diritti dell’uomo (come ha raccontata Mary Ann Glendon in un magnifico libro).
Perché dunque non provarci? Nel maggio scorso presentando il Meeting di Rimini in un’aula dell’Onu davanti a decine di funzionari e diplomatici, il professore americano Joseph Weiler disse: “Tutto ciò per cui esiste questo palazzo, il Meeting di Rimini lo fa”. È evidente anche a un bambino che c’è una enorme sproporzione tra il Meeting e l’Onu, come tra Rimini e New York. Non siamo dei pazzi visionari e non lo è Joseph Weiler. Ma ciò che importa è il metodo e quel metodo fa i miracoli di cui la politica ha bisogno.