E’ da quando ero bambino che i mezzi d’informazione mi torturano mostrandomi gli orrori del mondo. Guerre, carestie, deportazioni, ingiustizie planetarie, ma anche piccole ingiustizie odiose, perpetrate a casa nostra nell’indifferenza generale. Non esiste crimine che non sia al tempo stesso il pretesto per qualcuno per creare un’onda di indignazione. Succedeva quarant’anni fa come adesso, né più né meno.
E tutto questo, ammettiamolo, non è servito mai a nulla.
Guardo, sgomento, le immagini della fame che colpisce oggi in Somalia più di un milione di persone, tra cui – dati Unicef – mezzo milione di bambini. Guardo le facce di quei bambini nati in una terra in cui l’uomo è più bello che altrove e divenuta, ora, invivibile.
Guardo questa bellezza offesa dalla stupidità (che pare congenita in noi) dell’ideologia, guardo questa umanità prostrata dalla persuasione a noi ben nota che la realtà sia solo lo strumento, la cavia di qualsiasi esperimento di potere.
Guardo, agghiacciato, un mondo dove è possibile e quasi normale per chiunque considerare inferiore l’umanità di un povero che muore in Somalia rispetto a quella di un ingegnere parigino che guida il suo suv Mercedes.
Inutile, però, agitare i sensi di colpa, che in fondo sono perfettamente funzionali all’ingiustizia, una sorta di aggiustamento privato delle coscienze. E poi la bistecca ci attende, i bucatini all’amatriciana idem: cose più reali dei nostri sensi di colpa.
Il fatto è che l’etica non salverà il mondo. Dovremmo averlo capito da un pezzo. Non lo salverà l’etica così come non lo salverà la politica.
Ho assistito, al Meeting di Rimini, allo spettacolo Giobbe messo in scena da Andrea Carabelli su un testo del filosofo e drammaturgo francese Fabrice Hadjadj. Un bellissimo spettacolo, come non ne vedevo da anni a Rimini, tratto da un testo altrettanto bello.
Qui troviamo una risposta persuasiva al moralismo. Dopo aver liquidato i nemici, infatti, Giobbe si trova alle prese con quelli che si dicono suoi amici. C’è chi, per esempio, venuto a sapere della sua disgrazia, corre in suo aiuto. Sono qui per soccorrerti, dice a Giobbe uno di loro. Ecco un uomo sicuramente alle prese con un senso di colpa.
Ma la risposta di Giobbe gela ogni pretesa autopacificazione: Non potresti essere qui e basta?
Che battuta memorabile! Semplice e insieme definitiva. Tutti, a modo loro, sanno dire “sono qui per soccorrerti”, ossia: “so io di cosa hai bisogno”, se non addirittura “adesso ti dico io di cosa hai bisogno”. Lo sanno dire i governi dei paesi ricchi, lo sa dire al-Qaeda. Siamo così abituati a una filosofia dei bisogni che precede (e spesso ignora) i bisogni reali da non farci più nemmeno caso.
Ma la rivoluzione sta nella risposta di Giobbe: essere qui e basta, ossia: in quella presenza che si fa, innanzitutto, compagnia all’uomo. Qui sta la novità radicale. Lo diceva, argutamente, Alessandro Manzoni a proposito dell’umiltà di un certo brav’uomo: “N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari”.
Nell’istar in pari viene affermata tutta la dignità dell’uomo. Questo fanno i santi del nostro tempo, i soli di cui c’è veramente bisogno. Duro compito, perché fare compagnia all’uomo obbliga a un interrogativo su di sé, sulla verità di sé, significa guardare in faccia il proprio vuoto, col quale è inevitabile fare i conti, e dare ad esso una risposta non teorica, ma reale, fondata sull’esperienza.
Non è un caso che proprio queste persone siano, poi, le più indaffarate anche nel portare soccorso. Non si regge il peso della propria generosità – così inutile, così piccola nel mare del dolore – se, prima, non c’è stata la risposta alla domanda più grande.
Essere qui e basta, fare davvero compagnia all’uomo, alimentando la sua speranza. Sembrerà folle, ma questa è la risposta più concreta ai dolori che insanguinano il mondo.