“Cosa vuoi fare Checco da grande? Il posto fisso!”. Il film “Quo Vado” di Checco Zalone sull’attaccamento degli italiani al lavoro sicuro e garantito sta facendo ridere tanti. Eppure per decenni il posto fisso – possibilmente nella pubblica amministrazione – ha significato stabilità, tranquillità e un futuro, almeno fino ad un certo punto, messo in cassaforte.
Il patto tra governi e cittadini è sempre sembrato: io ti do un lavoro sicuro nello Stato, tu mi voti. Se poi lavori poco e male, non mi interessa. Così, ad ogni tornata elettorale si assisteva ad un’infornata di assunzioni pubbliche: poste, forestali, enti locali, scuole… E una volta dentro, capaci e meritevoli avevano stipendi e carriere identiche a quelle dei fannulloni perché le varie corporazioni, politiche e sindacali, assicuravano protezione: qua dentro ci stai tutta la vita, è un tuo diritto che nessuno toccherà.
La faccenda ha funzionato finché le vacche erano grasse, fino a quando il rapporto debito-Pil non è esploso e si è cominciato a chiedersi se servivano tutti questi statali, se fornivano servizi efficaci in modo efficiente. Qualcuno ha iniziato a porsi il problema dei privilegi corporativi e delle rendite di posizione e si è cominciato a parlare della necessità di valutare la qualità dei servizi che la pubblica amministrazione dà ai cittadini, attraverso una stima super-partes e una formazione continua dei suoi addetti.
Il problema in realtà non è diminuire i dipendenti pubblici: il loro numero in Italia è in linea con quello degli altri Paesi europei. Piuttosto, e qui si entra nel merito del punto sulla verifica, come mostra il grafico, il numero dei dipendenti pubblici varia da regione a regione senza motivo: l’efficienza, pare, non contare nulla.
Nonostante tutto quanto detto finora, parlare di merito, di valutazione e formazione permanente continua ad essere considerato lesivo dei diritti dei lavoratori e non una necessità per il bene di tutti. Un caso eclatante è quanto è emerso a proposito della riforma “Buona Scuola” che prevede in Italia l’obbligo per gli insegnanti alla formazione professionale continua, cosa che in tanti Paesi europei è un obbligo professionale da sempre.
Come questo verrà realizzato è ancora tutto da stabilire, mancando ancora i decreti attuativi, ma è bastato a far reagire i sindacati che hanno commentato come l’aggiornamento professionale dei docenti sia sempre stato un diritto e mai un obbligo. In generale, un dipendente della PA ha a disposizione mezza giornata all’anno di formazione professionale contro le 5 e anche 7 di molti Paesi europei, senza contare le fortissime resistenze a una mobilità che permetta una migliore collocazione dei lavoratori, nei settori e nei reparti che necessitano davvero (la mobilità attuale è meno dell’uno per mille). E la mancanza di qualità nella PA continua ad impattare in diversi modi sulla vita dei cittadini: con una comunicazione non chiara e reticente, con cartelle esattoriali in cui capita di non capire nemmeno per che cosa sia la richiesta di pagamento, con rimborsi dovuti ben oltre il tempo previsto… Per non parlare di quanto costi agli imprenditori, in termini di tempo e soldi, una legislazione e una burocrazia spesso elefantiache. Il vero problema non è mandare a casa in 30 giorni un furbetto su mille, ma far lavorare bene gli altri 999. Un anno fa un’équipe dell’Università Cattolica ha messo a punto per il Forum della Meritocrazia un indicatore di sintesi che cerca di descrivere lo stato del merito in un Paese. Lo studio, che utilizza anche dati forniti dalla Commissione europea, dall’Ocse, dall’Economist e dal World Justice Project, conclude che l’Italia “è un Paese che non consente un’adeguata valorizzazione del merito, sostanzialmente opaco nei meccanismi di selezione, con una bassa mobilità e un sistema di regole poco chiaro e trasparente”.
C’è un’obiezione che viene fatta quando si parla di valorizzazione del merito: sarebbe un modo di inserire discrezionalità e quindi di perpetuare il clientelismo, cancro della vita pubblica italiana. Ma se l’attività della pubblica amministrazione fosse valutata da un ente terzo in base alle sue performance, nessuno assumerebbe o promuoverebbe più l’amico del cugino o la sorella dell’amante. Per lo stesso motivo per cui nessuna squadra che non volesse retrocedere farebbe giocare un mediocre centravanti solo perché è il figlio del presidente.
Il punto è quello della triade perfomance-misurazione-valutazione, già introdotta dalla riforma Brunetta, prima ancora che dalla legge Madia. Sarà in grado la nuova riforma della PA di attuare questi risultati? Ai posteri l’ardua sentenza…