Sono state usate parole forti, parole d’allarme e di preoccupazione durante il dibattito avvenuto mercoledì scorso a Strasburgo alla presenza del Presidente della Commissione europea Barroso e di Jan Rostowski, ministro delle Finanze polacco, che detiene la presidenza di turno dell’Unione.
Quest’ultimo ha addirittura parlato di rischio di “una guerra nel giro di pochi anni”, come conseguenza del fallimento dell’Unione europea. “L’Europa è in pericolo – ha dichiarato a Strasburgo – se la zona euro si spacca l’Unione europea non riuscirà a sopravvivere, con tutte le conseguenze che si possono immaginare”. Anche Barroso ha voluto sottolineare la criticità del momento: “Siamo di fronte alla sfida più grave di questa generazione, si tratta di una lotta per il futuro politico dell’Europa, per l’integrazione europea in quanto tale”.
Per quanto possiamo amare od odiare l’Unione europea, per quanto possiamo continuamente evidenziarne le storture e i difetti, dobbiamo fare i conti con una realtà che ci impone di stare insieme se vogliamo uscire dalla crisi. Proprio come 60 anni fa ci siamo messi insieme per uscire dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, anche oggi siamo chiamati all’unità come unico metodo possibile.
Senza Unione europea la guerra in Europa è sempre stata una regola e la pace un’eccezione. Questi ultimi sessant’anni hanno ribaltato secoli di lotte e conflitti tra gli stati che oggi fanno parte di quel progetto che chiamiamo Europa unita. Siamo così certi che le parole, seppur provocatorie, del Ministro polacco siano così lontane dalla realtà?
Pensare a un nuovo conflitto armato tra nazioni europee è chiaramente un azzardo. Quello che è certo è che da solo, ognuno dei paesi membri dell’Unione è destinato a un inimmaginabile precipitare. Riconoscere questo pericolo come serio e imminente deve essere il primo passo per affrontare la crisi. Tutte le nostre energie vanno impiegate per farci ritrovare un senso di comunità indispensabile. Rafforziamo allora queste istituzioni dando loro piena fiducia e credibilità.
La crisi è economica, ma per molti versi anche istituzionale. Questo lo si vede dall’incapacità di imporre un’agenda per venire fuori dalla crisi: sembriamo piuttosto obbligati ad accettare l’agenda della crisi. Per esempio, quanto concordato il 21 luglio sul piano di aiuti alla Grecia non è stato velocemente ratificato, approvato o implementato da molti dei governi degli Stati membri. Credo allora che possa essere importante approfittare di questo momento per indicare un’agenda precisa di cosa va fatto, non solo in prospettiva, ma subito, perché si possa riguadagnare l’adeguata fiducia che ci è necessaria per rispondere ai nostri bisogni.
In settimana la delegazione italiana ha invitato ad anticipare, non al momento delle prospettive finanziarie, ma molto prima, il tema, per esempio, dei project bond. Credo che sia fondamentale ridare consistenza all’iniziativa della Commissione, e che la Commissione appaia come colei che conduce il gioco, piuttosto che subirlo.