Quasi nessun pronostico è stato rispettato. Il 2016 è stato un anno duro e difficile. Ma soprattutto, inaspettato. Dodici mesi fa, il Financial Times aveva fatto le classiche previsioni sull’anno in arrivo e assicurava che i britannici avrebbero votato per restare nell’Ue, che il Belgio avrebbe vinto gli Europei di calcio e che la Democratica Clinton avrebbe vinto le elezioni contro il Repubblicano Cruz. Era difficile immagine che la Spagna, dopo le elezioni del dicembre 2015, sarebbe rimasta quasi un anno senza Governo. Tuttavia c’era qualcosa che sapevamo: avevamo ancora attaccato alla pelle il dolore per i 130 morti nell’attentato di Parigi ed eravamo coscienti che ci sarebbero stati più attacchi sul suolo europeo, più terrorismo. Ma il colpo del male, con la sua insostenibilità, per quanto previsto non è per questo meno contundente.
Il 2016 potrebbe passare alla storia come l’anno del no. I risultati dei referendum in Colombia e nel Regno Unito, così come le elezioni americane, sono il risultato del trionfo del voto negativo. No a Hillary, non alla deindustrializzazione, no alla globalizzazione e agli immigrati, no all’Europa, no al perdono. In Spagna no al dialogo, non a un patto-con-chi-è-ideologicamente-diverso-perché-io-ho ragione. Il grande no del 2016 nasce dalla rabbia, dal fastidio, dalla frustrazione. Storditi e spaventati abbiamo detto no al legame con gli altri, con i diversi, con quelli che non capiscono chi siamo. Perché discutere, trovare accordi, governare con un altro se io ho vinto o se conto più del resto delle minoranze?
Dopo aver lanciato con furia il nostro grido di rifiuto sui social network o nelle urne, restiamo comunque interconnessi. Gli altri sono ancora lì: ostinatamente stranieri, conservatori o progressisti, europei; tenacemente difensori dell’ideologia di genere o del possesso di armi e dell’isolazionismo commerciale. Irriducibilmente diversi. I legami, alcuni legami, non possono essere eliminati. Per questo l’anno del no, lungi dal risolvere la situazione, ha aumentato la frammentazione. Lo stiamo vedendo in questi giorni in cui comincia a essere effettiva la presidenza degli Stati Uniti.
Il Re di Spagna, Filippo VI, nel suo discorso di Natale, ha fatto un appello a superare “l’intolleranza e l’esclusione, la negazione dell’altro e il disprezzo delle opinioni altrui”. È un buon invito. Ma la necessità di affermare il valore degli altri può diventare anche un wishful thinking, un pensiero più o meno buono. Se l’altro, pur essendo nel torto, governa; se l’altro non mi lascia libero, se lo percepisco come una minaccia per il mio mondo, perché dovrebbe essere un bene?
Le energie etiche per tenere in piedi le virtù illuministiche della tolleranza e della concordia sono andate dissolvendosi. Tra le altre cose perché queste virtù, come ha affermato l’antropologo Mikel Azurmendi, nascondevano una fredda indifferenza verso gli altri. Ci siamo isolati dietro le alte mura dei nostri diritti soggettivi mentre silenziosamente aumentava l’insicurezza riguardo la nostra identità. E così insicuri abbiamo perso il gusto, l’arricchimento e l’ampliamento degli orizzonti che accompagna qualunque amicizia con il diverso – un’amicizia civica per definizione. La noia comanda nei nostri giardini chiusi.
Da dove trarre nuove forze per affermare l’altro? La domanda è urgente. Nel 2017 ci saranno le elezioni in Germania, Francia e Olanda. E nel medio e lungo termine una seria crisi demografica. La xenofobia è una piaga. In queste circostanze solamente esperienze semplici ed elementari della ricchezza che arriva dagli altri, persino quando la si nega, sono all’altezza della situazione. Sono stati fatti troppi discorsi, ora servono occasioni in cui verificare come l’altro mi insegna cose di me stesso che non conosco, come mi obbliga a recuperare ragioni che si danno per scontate o che sembrano tristi mobili abbandonati. In questi giorni siamo stati sorpresi dalla nascita di un bebè a bordo della Fregata Navarra, che stava compiendo la sua opera di salvataggio e vigilanza davanti alle coste libiche. La semplice storia di una bimba e della sua madre migranti, il modo in cui ci ha aperto gli occhi, è un esempio – apparentemente banale – di qualcosa che abbiamo riconosciuto come buono e giusto. La grande storia si fa così, con storie personali.
Il terrorismo è il tentativo di imporre un no definitivo. Orlando, Bruxelles, Nizza, Baghdad, Ankara, Jalalabad sono stati segnati nel 2016 da un blasfemo no alla vita. Dopo l’attentato di Berlino, Ignacio Torreblanca, editorialista de El País ha scritto: “Siamo armati e facciamo bene a esserlo, perché bisogna combattere il terrorismo all’interno e al di fuori dell’Europa, con tutti le misure, investigative, giudiziarie o militari. Ma la nostra sicurezza non deriva dal fatto di essere armati (…) Mentre i populisti e gli xenofobi si alimentano della paura e degli spasmi terroristi per catapultarsi al potere a ogni attentato, gli altri si armano di ragioni per andare avanti”. Quali sono queste ragioni? Qual è l’esperienza su cui si basano? A volte sembrano essere scritte sull’acqua. Nel 2017 non possiamo darle per acquisite o conosciute.