Il fatto del giorno: i respinti alla maturità sono passati dal 2,8% del 2008 al 3,1% del 2009. Percentuale decisamente non sconvolgente. Nel 1969 i respinti erano il 30%, nel 1924 il 74%. A questi vanno tuttavia aggiunti i non ammessi alla maturità e i bocciati degli anni intermedi, cui questo giornale ha già dedicato qualche pagina. Dopo anni di “facilismo”, arriva il “severismo”.
Ottimo! Ripetutamente avevamo segnalato il divario tra le valutazioni internazionali e nazionali esterne del sistema educativo italiano e i voti finali interni forniti dallo stesso. È bastato tarare in modo più preciso il termometro per scoprire che il numero dei promossi e dei voti alti, specialmente al Sud, è drogato e che è trainato dall’anacronistica persistenza del valore legale del titolo di studio. Ciononostante, le cronache quotidiane di sedute finali di commissioni d’esame continuano a segnalare promozioni facili e facilissime.
Verrebbe quasi da dire: i bocciati? Troppo pochi! Ma il “severismo” funziona, innanzitutto, da segnale ideologico: in tempi di crisi profonda dei modelli di produzione e di consumo, i Paesi e ciascuno sono investiti da uno tsunami di nuove responsabilità. Il tempo delle vacche grasse è finito per un bel po’! Perciò è venuto il tempo, anche nelle scuole, di separare chi studia da chi non studia, chi rispetta le regole elementari della convivenza scolastica da chi le viola.
La sfida del merito è decisiva in una società in cui oggi non conta ciò che sei, ma di chi sei figlio o quale potente frequenti; non conta l’indice di sviluppo umano individuale, ma il capitale relazionale di cui sei immeritevole portatore. Una società in cui ciascuno tende a battere il mea culpa sul petto altrui: è la società dell’irresponsabilità, è la società del debito pubblico. E tuttavia il “severismo”, una volta che abbia funzionato da innesco ideologico contro il “facilismo”, diviene una sfida rivolta a se stesso. Le domande cui deve rispondere, perché non resti solo il flatus vocis estivo di una campagna elettorale perenne, volta a vincere l’oggi e non il domani, sono più d’una. Eccole: l’aumento dei bocciati è dovuto al fatto che la scuola ha cambiato parametri di giudizio o al fatto che ha migliorato improvvisamente da quest’anno la qualità della propria offerta, sorprendendo i ragazzi, le famiglie, gli insegnanti? Quest’anno gli insegnanti sono più preparati? Gli insegnanti sono stati dotati di standard nazionali omogenei e di indicatori di giudizio più precisi? I bocciati che destino avranno? Compito fondamentale della scuola è selezionare o formare in vista della “selezione naturale” della vita? E che dire dell’alta percentuale di bocciati negli Istituti professionali e tecnici? Lì ci stanno i più stupidi o la loro vocazione non trova corrispondenza nel tipo di offerta?
Insomma: passare dall’ideologia del merito ad “una scuola del merito” richiede ancora moltissima strada. Fatto il primo passo, il piede per il secondo passo appare ancora sospeso per aria. Perché si posi su un terreno solido e inconcusso, occorre in primo luogo fissare standard nazionali, sotto forma di obbiettivi di competenze-chiave da raggiungere e di indicatori di misurazione. In mancanza di questi, i giudizi sono affidati all’anarchia di istituto, di indirizzo, di territorio. Ed è ciò che è accaduto anche in questi esami sedicenti severi. Perduti per strada i vecchi programmi gentiliani, forse antiquati, ma almeno severi e omogenei su scala nazionale, ciascun insegnante, ciascuna scuola, ciascuna Commissione d’esame si regola come crede. Così è possibile arrivare alla fine del quinto anno di Liceo classico a studiare fino a Hegel o a Pascoli, conoscere poco di latino e greco e diplomarsi. Gli esami di maturità, così come ora sono configurati, sono davvero in grado di certificare rigorosamente l’acquisizione delle competenze-chiave? Dicono la verità ai ragazzi, alle famiglie, al Paese circa il loro patrimonio di competenze? In questo contesto, paradossalmente, preoccupa di più il “merito” dei promossi che il “demerito” dei bocciati.
Quanto agli insegnanti, restano il drammatico problema irrisolto del sistema: chi e come verifica la loro capacità di insegnare? Non vorremmo che un indicatore di capacità diventasse quello del numero di bocciature e che a questo si riducesse una fasulla restituzione di ruolo. Alla fine, avviato il necessario rientro dal “facilismo”, la questione di fondo, radicale, drammatica resta la seguente: perché con il passare degli anni la noia dei ragazzi aumenta, il desiderio di sapere diminuisce? Perché man mano i ragazzi salgono lungo i gradini dell’ordinamento scolastico, crescono in età, ma non in sapere? Perché perdiamo un immenso capitale umano di 200.000 ragazzi l’anno? Dopo essere passati all’incasso presso l’opinione pubblica dei facili dividendi ideologici-propagandistici, il “severismo” dovrà diventare esigente con se stesso. Rifatto il tetto, quando si incomincia con le fondamenta e con i muri?