Mosca, fine maggio e fine semestre. In università c’è già aria di sessione, gli studenti non parlano d’altro, vogliono solo sapere quali e quante saranno le domande d’esame e quali i criteri di valutazione, se potranno usare i testi e se devono leggere proprio tutto tutto…
Entro in classe e a coronamento di un anno di lezioni di letteratura italiana in cui abbiamo provato a imparare ad analizzare i testi letterari, affronto l’inquietudine dei ragazzi. Ma è l’ultima lezione, un’ora un po’ speciale perché i miei studenti avevano appena avuto la fortuna di assistere alle lezioni di storia dell’arte di un professore italiano e dovevano raccontarmi cosa avevano scoperto, conosciuto e imparato, presentandomi alcuni quadri.
I risultati sono stati diversi, e interessanti. Qualcuno ha mostrato l’immagine alla classe provando a descrivere, a leggere il quadro come un testo, cercando di ricordare quanto appreso a lezione. Altri invece non hanno nemmeno portato l’immagine e si sono messi a parlare – anche bene, con termini appropriati – di una qualche interpretazione di un quadro che noi non potevamo vedere. Alla mia domanda sul perché fosse stato affermato che un dipinto pieno di simboli pagani fosse «un chiaro esempio di arte cristiana» la risposta è stata deludente e preoccupante: «l’ho letto in internet». Bene, «e chi ha scritto l’articolo che ha letto in internet?» «Non lo so. È importante?» Ottimo, penso, e insisto: «ma lei nel quadro cosa vede?». Silenzio.
Come ultima lezione dopo un anno che provo a insegnare a leggere un testo partendo… dal testo, il risultato non è propriamente confortante. Ma forse dovevo spiegare più chiaramente ai ragazzi che anche un quadro è un testo, e che si può provare a leggerlo o che per lo meno si può arrivare a dire che se non abbiamo gli strumenti adeguati per leggerlo – se non ne conosciamo il linguaggio – non siamo in grado di leggerlo. Ci provo, e proseguiamo.
È il turno di Sveta che ha deciso di presentarci il Doppio ritratto di Giorgione. Questa volta abbiamo l’immagine, è un buon inizio. Sulla tela sono raffigurati – semplifico – due uomini, uno in primo piano a mezzobusto, e il secondo dietro di lui. Si vedono molto bene le differenze nella postura e negli sguardi rivolti a uno stesso qualcosa che si trova oltre la tela. Il primo tiene in mano un frutto. E Sveta inizia parlare di questo frutto che «dev’essere un frutto dolce e un po’ amaro, perché questo spiega il senso dello sguardo del protagonista del dipinto». Finita la presentazione le chiedo: «ma perché dice che il frutto dev’essere un po’ dolce e un po’ amaro? Che frutto è?» Risposta: «l’ha detto il professore». «Va bene, ci credo, ma io le sto semplicemente chiedendo di guardare il quadro e di dirmi che frutto è…».
La classe si accende: «forse aveva detto che era un melone!». Sgrano gli occhi: «scusatemi, dimenticate per un attimo il professore, vi sto facendo una domanda semplice, ingrandiamo il particolare del quadro e osserviamolo bene, il melone è un frutto che ha una certa forma e dimensione e colore, vi sembra un melone?». Mi dicono di no. Insisto: «che frutto è? Non avete mai visto niente di simile?» Panico, brusio: «ma che cosa aveva detto il professore? Non ci ricordiamo…». Non capivano la mia domanda, non la sentivano neanche. Provo a rompere l’incantesimo facendo una battuta: «io direi che è una pera!». Speravo così di riuscire a far capire che stavano sbagliando a ragionare, proprio a usare la ragione, ma loro, caparbi, mi rispondono seri: «no, il professore non ha detto pera».
Li guardo un istante attonita. E ricomincio: «ragazzi, il professore è tornato in Italia, e forse non è necessario telefonargli per rispondere alla mia domanda, c’è il quadro e davanti al quadro ci siete voi, avete gli occhi e la domanda è semplice. È un frutto che conoscete. Potete rispondermi? Che frutto è? Guardate la forma, il colore, le foglie…?» Era un’arancia, un’arancia selvatica, ma evidentemente proprio un’arancia. Probabilmente il professore aveva usato la parola melangolo (e così si spiega anche il perché di quell’improvviso «melone»), una varietà dell’arancia che, appunto, si caratterizza per il suo gusto amaro: «un frutto dolce e un po’ amaro».
Se è amaro accorgersi di quanto è radicale la fatica che facciamo a vedere la realtà, è però dolce imparare a vedere e provare a guardare insieme. Perché quando il reale finalmente si impone ai loro occhi gli uomini, davanti a quel qualcosa di infinitamente più grande di loro, si riconoscono più facilmente insieme. E oggi ne abbiamo un bisogno terribile, in Russia come dappertutto, abbiamo bisogno di trovare e di essere gli uni per gli altri «occhi amici».