Barbara Sukowa, che interpreta Hannah Arendt nel film diretto da Margarethe Von Trotta, guarda attraverso la finestra una Manhattan lontana. La filosofa ha appena affrontato le feroci critiche arrivatele per le sue cronache del processo Eichmann. Le è stato detto di tutto dopo che ha descritto la condotta del responsabile delle SS come una conseguenza della “banalità del male”. La Arendt, per bocca della Sukowa, dice: “Mi hanno criticato per molte cose, ma non si sono accorti di quale sia stato il mio vero errore: il male non è del tutto radicale, mentre il bene sì”.
Per milioni di spagnoli che stanno seguendo uno dei processi più celebri degli ultimi anni questa frase della Arendt sarebbe risultata interessante. Il “caso Bretón” (a Cordoba nel 2011 sono stati uccisi due bambini, Ruth e José, di sei e due anni. Il padre, José Bretón, è stato condannato per il loro omicidio, che voleva essere una vendetta nei confronti della moglie, ndr) ha occupato ore e ore di trasmissioni televisive. Sono stati raccontati persino tutti i minimi dettagli delle indagini. Le dichiarazioni dei testimoni e dello stesso imputato davanti alla giura popolare sono state seguite più delle vicende politiche o del dibattito sulla possibile ripresa economica.
I comunicatori hanno cercato una “spiegazione” per il comportamento di un padre che arriva a uccidere i suoi figli per vendicarsi di sua moglie e che fa sparire in modo tremendo (bruciandoli, ndr) i loro resti: Bretón doveva per forza avere qualche malattia mentale, non è possibile che la libertà umana avesse concepito un atto del genere. Tuttavia, le relazioni dei periti non hanno lasciato dubbi: le facoltà mentali dell’imputato sono quelle di una “cattiva persona”. Non c’era nulla che “giustificasse” il suo comportamento “anomalo”. Non c’era alcun “difetto” psichiatrico.
Nonostante lo psicologismo dominante, non c’era altra possibilità che affrontare l’abisso in cui il mistero del male si mostra in tutta la sua crudezza. Il sensazionalismo e la morbosità con cui il caso è stato affrontato dai media non ha impedito il sorgere, forse in mondo inconsapevole, delle tre grandi domande che fin dai tempi di Caino scuotono il cuore umano: com’è possibile che succeda qualcosa del genere? Come si può espiare una colpa di questo tipo? Chi può rendere giustizia alle vittime? La condanna dei giudici non è sufficiente, né lo sono gli anni di carcere. Forse questa volta la televisione, che serve tanto ad addormentare, è servita a risvegliare. È diventato fin troppo evidente che il mondo senza colpe, né necessità di redenzione – il sistema perfetto di cui parlava Eliot – non esiste.
Il caso Bretón ha reso evidente agli spagnoli che le realtà del male e dell’ingiustizia che danneggiano il mondo esistono. Sono cose che non possono essere semplicemente ignorate: devono essere eliminate. Che cosa faremo noi, uomini del XXI secolo, così bisognosi di espiazione come i nostri avi, ora che non possiamo sacrificare animali per implorare perdono? Fortunatamente la nostra ragione moderna ci dice che il sangue dei montoni è perfettamente inutile per questo scopo. Ma abbiamo bisogno di poter dire come la Arendt – non dalle cattedre di filosofia, ma davanti alla televisione – che solo il bene, non il male, è radicale. Che esperienza radicale e che compagnia rendono possibile tutto ciò?