L’impresa di Marchionne

Sergio Marchionne interverrà al Meeting di Rimini per spiegare cosa significhi «rilanciare una multinazionale nell'economia reale, rompendo tabù nelle relazioni industriali, in Confindustria, nei sindacati e nel concetto di produttività». Secondo GIANNI CREDIT, non deluderà le aspettative  

Il 26 agosto di un anno fa, al Meeting è venuto per la prima volta un governatore della Banca d’Italia: Mario Draghi. Ha raccontato la sua esperienza di uno degli “uomini soli al comando della crisi”: lui – soprattutto – alla guida del Financial Stability Board, a confrontarsi quotidianamente con il presidente della Fed o quello della Bce. Da quell’incontro è nata un’amicizia inequivocabile, se una delle mostre del Meeting 2010 è dedicata alla crisi finanziaria ed è stata fortemente ispirata alle riflessioni di Draghi.

Si poteva peraltro, allora – e si può oggi – non essere sempre d’accordo su tutto ciò che il Governatore sostiene e propone a livello strategico o tecnico. Il presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, ad esempio, all’inizio del Meeting in corso si è detto molto più cauto di Draghi su “Basilea 3”: come strumento più efficace di vigilanza sui rischi finanziari e – allo stesso tempo – di efficiente gestione del credito alla imprese.

Ma – ora come allora – questo non ha messo in discussione l’onesta intellettuale di Draghi: risorsa assai meno presente – alla prova dei fatti – sia tra i molti irriducibili teorici della crisi come “incidente di percorso”, sia tra i censori più apocalittici, ma solo ex post.

Anche su Sergio Marchionne, sulla “sua” Fiat, sul caso Melfi e sul piano Pomigliano una democrazia economica può – anzi, deve – ragionare in termini di fatti e di giudizi (plurali) su quei fatti. Tra i fatti c’è stata in questi giorni, una giornata sindacale convulsa ai cancelli di una delle grandi fabbriche del Meridione, a Melfi.

Tra i giudizi non è mancata una presa di posizione diretta del Presidente della Repubblica italiana che – in una risposta all’appello dei tre sindacalisti licenziati alla Fiat di Melfi e reintegrati in primo grado dai giudici del lavoro – ha invitato (tutte le parti in causa) a superare «un grave scontro».

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Tra i fatti c’è che lo stabilimento di Melfi è stato costruito con ingenti contributi pubblici e che la Fiat ha recentemente beneficiato – al pari di altri grandi produttori – di incentivi statali all’acquisto di auto. Tra i giudizi ci sono i complimenti pubblici del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, per il primo anno di "turn around" della Chrysler.

 

Il Lingotto vuole far regredire a un vecchio fordismo centinaia di operai a Pomigliano? Vuole disarticolare da Melfi un sistema delle relazioni industriali consolidato nel sistema-Italia dall’autunno caldo del ’69? Lo ha scritto, quattro giorni fa, su Repubblica, il sociologo industriale Luciano Gallino.

 

Per lui l’obiettivo della Fiat nella nuova «lotta di classe» è «l’abbandono del contratto di lavoro, l’intensificazione massima delle prestazioni, la messa nell’angolo dei sindacati e fuori dalla fabbrica il primo che apre bocca o alza il dito. Piaccia o non piaccia ai giudici del lavoro».

 

Il Marchionne là dipinto è un Valletta o un Romiti del XXI secolo, successore in linea retta dei top manager che guidarono la Fiat nel dopoguerra: tra boom economico e shock petroliferi, tra terrorismo in fabbrica e aiuti pubblici, tra dialogo con le grandi centrali sindacali e tentativi di costruire sindacati aziendali. Tra industria globale e "capitalismo misto", cogestito (in posizione spesso dominante) tra Stato e grandi banche.

 

Lo stesso giorno, il vicedirettore de Il Sole 24 Ore, Alberto Orioli, ha invece sintetizzato così la "linea Marchionne": «Il mondo – quello comparabile a noi per qualità della produzione, livello di diritti e civiltà – fabbrica auto a condizioni molto precise. Che da noi non ci sono o non ci sono dappertutto». E «come Marchionne, molti altri imprenditori fanno discorsi semplici e diretti ai loro interlocutori sindacali quali siano le esigenze della competizione globale per giunta in tempi di vacche magrissime».

 

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Quindi, se nei nuovi impianti Fiat in Serbia (o in quelli Chrysler che il Lingotto di Marchionne sta ristrutturando e integrando negli Stati Uniti) gli standard di costo, salario, produttività, qualità, ecc. sono diversi da Pomigliano (o Melfi, o Termini) sono i dipendenti di quegli stabilimenti – e i loro rappresentanti sindacali – a dover cambiare.

 

Il Marchionne qui descritto è sideralmente lontano da Romiti e Valletta, perfino dall’Avvocato Agnelli: è il figlio di un carabiniere abruzzese emigrato in Canada cui perfino il cancelliere Angela Merkel stava pensando di affidare il rilancio di Opel, idea tramontata – guarda caso – per l’opposizione del sindacato tedesco.

 

Giorgio Vittadini – presidente della Fondazione per la Sussidiarietà (editore di questo quotidiano online) – ha intanto confermato su "La Stampa" (quotidiano edito dalla Fiat) che a Marchionne non è stato rivolto un invito neutro: «Gli abbiamo chiesto – ha detto – che ci spieghi cosa vuol dire rilanciare una multinazionale nell’economia reale, rompendo tabù inveterati nelle relazioni industriali e sconvolgendo Confindustria, i sindacati e il concetto di produttività».

 

Il Meeting è, per definizione, il luogo delle sorprese, dei "different point of view": della libertà intellettuale come metodo rigoroso. Difficile che un personaggio come Marchionne deluda le attese.

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