NEW YORK — Avete presente quando ci si sente addosso un po’ di influenza con tutta quella pesantezza di testa, quella svogliatezza, indolenza che accompagnano il fenomeno? Settimana scorsa, mentre mi trovavo in quelle condizioni, mi è tornato alla mente un racconto di Rudyard Kipling. Ci sono due signore che davanti alla solita, inglesissima tazza di tè parlano del tempo che fa — cioè di niente, perché come osserva l’autore, si finisce a parlare del tempo atmosferico quando non si ha proprio niente da dire e non si ha nessuna intenzione di impelagarsi in qualche riflessione “seria”.
Ma il passaggio a mio avviso più spettacolare di questo breve racconto sta nel momento in cui, sempre nel corso di questo parlar di niente, vien fuori che una delle due dame soffre regolarmente di dolorose e prolungate emicranie. “Oh, mi spiace tanto!”, sussurra accoratamente l’altra, e con tutto il garbo e la partecipazione di cui è capace, aggiunge: “Deve essere una vera pena da portarsi addosso nella giornata!”. “Sì”, fa l’altra, “è un impiccio fastidioso, ma ha anche i suoi pregi: mi da un’eccellente scusa per evitare di pensare”.
Ogni tanto cose lette anni e anni fa riemergono dal passato e tornano in mente. Riemergono perché son sempre rimaste lì, da qualche parte tra la testa e il cuore o per aver gettato un raggio di luce su qualcosa che di cui non c’eravamo mai accorti, o per averci suscitato una qualche corrispondenza, o per averci toccato, ferito a tal punto da insinuarsi repentinamente nel nostro subconscio. E sempre per una ragione, magari una circostanza fortuita, ad un certo punto risaltano fuori.
Così settimana scorsa, nel mezzo di una specie di inner struggle, di lotta interiore tra la mia malavoglia da raffreddore e l’emergenza di una quantità di cose più o meno urgenti che bussavano alla porta del senso di responsabilità, mi è risaltato fuori Kipling. Come dire a me stesso ed al mondo: sto poco bene, lasciatemi “non pensare”. E poi, siccome i pensieri non li controlliamo, per libera associazione sono finito da Woody Allen e dal suo “Irrational man” (visto pochi giorni prima) quando il protagonista più o meno ci dice che se per caso finissero le distrazioni, se per caso un uomo non ne avesse più, sarebbe un casino perché si correrebbe il serio rischio di doversi mettere a pensare al senso delle cose.
L’idea di essere lasciati soli con i nostri (possibili) pensieri ci fa sentire in balia dell’horror vacui. Le distrazioni tengono questo rischio alla larga. Oggi come oggi non c’è neanche più bisogno del mal di testa. C’è la tecnologia. Basta un giro su Instagram, un’occhiata a Facebook, un text su WhatsApp. Sono sempre lì, a portata di mano. Non odio nessuno di questi “aggeggi”, ma la loro esistenza rende difficile leggere una pagina di giornale, ascoltare un brano di musica, rende impossibile riflettere su quello che si è fatto un istante prima. A tutti, ma soprattutto ai giovani. Perché siamo tutti fragilini, facciamo fatica a capire quel che vogliamo veramente e così accettiamo la distrazione come la condizione normale del vivere. Quando ti distrai non senti dolore e ti illudi di essere vivo anche se sai che non è così.
Qua il dibattito sul “male” della tecnologia sta cominciando a far sentire la sua voce dalle colonne dei giornali. C’è chi attacca e c’è chi difende. Da qualche giorno poi è entrata in scena anche la Fcc (Federal Communications Commission). Detta Commissione sembra intenzionata a limitare l’attualmente illimitato accesso ad internet di tutti a tutto. Ovviamente non per amore, ma per questioni di soldi.
Cercare, scoprire, gustare, giudicare e ricordare: le cose belle del vivere, possibili a tutti. Quando non siamo distratti, cioè assenti da noi stessi.
“Il compito del moderno educatore non è disboscare la foresta, ma irrigare il deserto” (C.S. Lewis). Chi l’ha scoperto lo insegni.