Capita a volte che cose che ci sembrano stranote, riescano a prenderti in contropiede e a sorprenderti. Qualche giorno fa (scusate il riferimento personale ma mi è necessario per spiegare) mi è stato chiesto da parte di un gruppo di amici di raccontare nuovamente il rapporto tra Giovanni Testori e don Luigi Giussani. Ricostruita la catena sorprendente di fatti che s’innescò a partire da quel maggio 1978 quando un gruppo di universitari avevano suonato allo studio di Testori dopo aver letto un suo articolo sul Corriere all’indomani dell’assassinio di Moro, mi è sembrato opportuno che ci addentrassimo soprattutto nel Senso della Nascita.
Per chi non lo conoscesse, Il Senso della Nascita è un libro in cui Giovanni Testori dialoga con don Giussani e che venne pubblicato nel 1980. Alcuni dettagli però fanno capire meglio la natura di questo libro. Innanzitutto Testori ne è l’autore, perché è lui a prendere l’iniziativa e a chiedere a don Giussani un dialogo che in realtà è un qualcosa che sta a metà tra la confessione e l’interrogatorio. Testori interroga Giussani sulle grandi domande che lo hanno reso intellettuale inquieto e “senza patria”. La prima di queste domande è proprio quella espressa nel titolo del libro. Il “senso della nascita” è perciò innanzitutto quello che Testori cercava per se stesso, era una domanda aperta, che bruciava sulla sua pelle. In questo il titolo esprimeva un’urgenza, non una risposta.
Da qui nasce il ritmo che il libro assume. Un ritmo incalzante, senza pause e senza rilassamenti. Testori e Giussani si espongono su tutte le questioni della vita, senza sconti e senza nascondersi niente. Si avverte tra le pagine una libertà che è davvero raro trovare nel rapporto tra due personaggi pubblici di quel peso e carisma.
Il “perché sono nato”, il “chi ha voluto che io nascessi” sono sempre state domande che hanno assediato la storia e il cuore di Testori. Quando nel 1972 aveva scritto per Franco Parenti la sua rilettura dell’Amleto, aveva immaginato che il dialogo con il padre, da cui prende il via la tragedia shakespeariana, fosse in realtà una regressione di Amleto sino a tornare ad essere seme. Per chiedere così conto a suo padre del perché lo avesse fatto nascere. Quello era il Testori pre “conversione”, ma la domanda di fondo non era diversa da quella che avrebbe posto al centro del suo dialogo con Giussani. Del resto, quando in una stagione più pacificata della sua vita scrisse Interrogatorio a Maria, ancora una volta le domande riguardavano proprio il momento di un concepimento, quello di Gesù: un figlio esito di un “sì”. E di interrogatorio comunque si trattava… Nulla di scontato, nulla di pre-acquisito.
Nel dialogo Testori porta intuizioni che fanno sobbalzare Giussani, come quando gli confessa di aver spesso pensato che ognuno di noi viene concepito in un momento di sperdutezza, “che è una gioia oltre quella che si sa”. “Sperdutezza! È bellissimo, perché è la parola che indica l’altra forza che compie quel fatto, perché la forza del mistero di Dio”. Ma poi il dialogo allarga il campo. E la dimensione del nascere diventa esperienza di ogni giorno e di ogni istante. Il senso della nascita non è coscienza acquisita e “garantita”, ma è un cammino fatto sempre di nuovi inizi. È a questo punto che Giussani, in una delle pagine più belle del dialogo, introduce l’idea che la nascita coincida con il ridestarsi della persona, “la cosa più piccola è risibile che ci sia, la cosa più sproporzionata che non ha nessuna possibilità di riuscita”, eppure la persona “è il punto della riscossa”. E ciò che chiamiamo “movimento” è innanzitutto movimento della persona.
Così a questo punto quel libro, come in un balzo che scavalca i quasi 40anni che ci separano da lui, arriva su di noi. Lo scopriamo un libro ancora totalmente per noi. Una sorpresa inaspettata da quei due uomini liberi e veri.