A volte le parole della liturgia fortunatamente riescono a forare la patina spessa e opaca dell’abitudine, il marmo freddo della distrazione ed offrire, quindi, alla ragione e al cuore la loro millenaria saggezza riguardo all’uomo e alla sua esistenza. Qualche giorno fa le invocazioni finali delle Lodi, quelle che stanno prima del Padre nostro, quelle che sono recitate con l’infastidita fretta di chi aspetta la fine della cerimonia, quelle su cui spesso si sorvola perché non sono neanche parola di Dio come i salmi eccetera, proprio l’ultima di quelle invocazioni diceva: “Fa’ che sperimentiamo fin da questa mattina la tua misericordia, e la gioia che tu dai ai tuoi amici sia la nostra fortezza”. L’avevo già recitata tante volte, ma quella mattina qualcosa della saggezza liturgica mi ha toccato. Tanto che mi è venuta voglia di rileggerla con calma.
Anzitutto risulta sorprendente la seconda parte. Diamo pure per assodato che noi oranti abbiamo bisogno di fortezza — la parola finale su cui cade tutto l’accento dell’invocazione —, del resto se siamo lì a pregare Dio è perché da soli non ce la sfanghiamo tanto facilmente, ci tremano un po’ le gambe. E questo al mattino è abbastanza evidente visto che magari abbiamo fatto fatica ad alzarci, magari il primo pensiero non è stato affatto per il Padre eterno ma per i problemi e le difficoltà che ci aspettano proprio quel giorno, magari siamo impensieriti o arrabbiati per qualcosa (un acciacco, un fastidio, un dolore).
Insomma, ci sta che chiediamo la fortezza, ma certo è ben strano che essa sia generata dalla “gioia che tu dai ai tuoi amici”. La fortezza è questione di muscoli (fisici o mentali) che si possono opporre all’avversario, è questione di volontà (la famosa forza di volontà) con cui perseguire le mete desiderate, è questione di armi (mentali per carità, però alla bisogna…) con cui affrontare i nemici. Mai avremmo pensato che muscoli, volontà e armi potessero consistere nella semplice gioia. Se però osserviamo quanto sia raro e sorprendente imbattersi in un volto trasparente di gioia ci rendiamo subito conto della potenza e attrattiva di questo dono e pertanto della suprema intelligenza che è il chiederlo.
Già l’inizio dell’invocazione, comunque, è interessante. È diretto, immediato, senza preamboli: “Fa’”. Non si ricorda neppure a chi ci si rivolge: è chiaro, lo si sa fin dal principio, è Dio. Proprio per questo, però, ci si aspetterebbe un tono più moderato, più cerimonioso, più rispettoso, tipo: vorremmo, se si potesse, ci auguriamo che. E invece no, chi ha bisogno veramente non mena il can per l’aia: “Fa’”.
E poi non chiediamo un qualche fumoso stato spirituale, un sentimento interiore, una vibrante emozione; qui di chiede di “sperimentare”; la liturgia è concreta fin quasi al materialismo: vedere e toccare, constatare all’interno dello spazio reale, ovvio, comune della propria esistenza, sperimentare nel tempo concreto.
Così concreto che si chiede a Dio di farci “fare” tale esperienza “fin da questa mattina”, questa non un’altra, questa che reca con sé il tal specifico umore, la tale recondita aspettativa, la pesantezza, il dolore nascosto o l’allegrezza spontanea. Chiediamo che tutto questo serva a sperimentare “la tua misericordia”. E qui torna in mente un anno intero trascorso a sentir parlare di misericordia e la scoperta che forse non ci abbiamo capito molto, ma certamente è solo in essa che possiamo reperire la gioia che è la nostra fortezza.