Anticamente il popolo di Israele faceva proprio come noi: sceglieva un capro, lo caricava metaforicamente di tutti i propri peccati e lo inviava nel deserto, a circa 12 kilometri da Gerusalemme, dove esso veniva precipitato da un dirupo. Era il cosiddetto “capro emissario”, che nella vulgata comune è pure detto “espiatorio”. Si tratta di un rito psicologicamente importante perchè illude di poter distribuire un pó il peso delle responsabilità del proprio male. È un rito che ci alleggerisce, che tende a ridurre il dramma del nostro io segnato dal peccato e dalla morte. In questo afoso fine luglio, mentre la politica italiana si dimena tra l’attesa del “giorno 30” e un dibattito inquietante sull’omofobia, mentre il mondo guarda stupito a Francesco, l’Alter Christus in visita al Brasile per la XXVIII giornata mondiale della gioventù, Francisco Josè Garzon del Amo è riuscito a conquistarsi il posto di “capro espiatorio” nel tragico deragliamento del treno per Santiago de Compostela, avvenuto la sera dello scorso 24 luglio. Francisco Josè è conosciuto da tutti con un altro nome: il macchinista. Con questo appellativo, e con le leggende metropolitane che girano attorno a lui, questo signore sta salvando il posto e la buona fama ad un sacco di altra gente che non speravano davvero di trovare una via d’uscita così rapida e indolore alla propria irresponsabilità e che in queste ore si affannano a sostenere la tesi dell’errore umano. Nessuno sa che cosa sia realmente successo quella sera.
Le indagini della polizia spagnola faranno il proprio corso. Per questo sarebbe stupido difendere a spada tratta il signor Garzon, il quale emerge da questa vicenda con delle responsabilità che sembrano enormi, ma sarebbe altrettanto infantile confondere le responsabilità dell’uomo con la colpa dell’incidente, meccanismo comodo in chi ha sempre bisogno di dare un volto “materialista” ai fatti della storia che – comunque – sono nelle misteriose mani di Dio. Se Garzon ha sbagliato dovrà riparare, ma nessuna punizione sarà sufficiente a lenire il dolore dei genitori, dei figli, degli amici di coloro che viaggiavano su quel treno. Il capro espiatorio non funziona, anche se bisogna riconoscere che è comodo. Claudio Chieffo, parlando degli aguzzini di Auschwitz, diceva con lacrime amare che “non è possibile essere come loro, non è difficile essere come loro”.
Così, di fronte alla spocchiosità e alla tragica leggerezza di Francisco Josè – manifestata anche su molti social network – , è giusto indignarsi, ma è ancora più giusto ricordarsi che ci vuole poco a essere come lui perchè il male, diceva Hannah Arendt, è una cosa banale, alla portata di tutti. Il vero problema, cari amici, è sempre lo stesso: la nostra incapacità di stare di fronte all’umano e alle questioni che esso pone, riducendo tutto il dramma che abbiamo nel cuore ad una stupida ricerca di “chi ha ragione” senza provare a chiedersi – davvero – “ma come farà quell’uomo a vivere questa cosa? Come faró io a stare di fronte al mio male?”
Questo a noi non viene spontaneo, anzi: molto ironicamente domande come queste noi le consideriamo riduttive, invertendo ciò che è reale e problematico con ció che – invece – è frutto del nostro ossessivo bisogno di giustizia. Il problema non è in Francisco Josè, lì emerge in tutta la sua drammaticità, il problema è in me. Nessuno puó dare ricette su una roba del genere, ma la rivoluzione – di fronte al male – è assumersene totalmente le responsabilità senza “se” e senza “ma”. Solo quando uno comincia a dire “quel male l’ho fatto io” allora – solo allora – puó piangere davvero e cercare, tra la folla, il mantello di Gesù.
Io, signor Garzon, non la carico di nessuna colpa, ma prego il Signore che lei possa essere onesto e non barare con se stesso, prendendosi tutto il coraggio di dire: “questa cosa – questo male – l’ho fatto io”. Lo auguro a lei come a chi si droga, a chi beve, a chi tradisce la propria moglie o il proprio marito, a chi ruba, a chi gioca e a chi mente perchè ognuno, per il fatto che esiste e che sbaglia, ha bisogno di non barare più, ma di guardarsi davvero – fino a scorgere dentro di sè tutta la propria sozzura. Auguro a tutti un momento di verità in cui ricominciare a mendicare sul serio e in cui prendere consapevolezza di tutto il proprio essere. Questo è quello di cui la Spagna ha bisogno, questo è quello di cui la mia vita ha bisogno. Perchè il male non si cancella, – è vero – e i morti non tornano indietro, ma il male si puó perdonare. Occorre solo che esista un Io disposto a inginocchiarsi e a chiedere pietà. Questa, infatti, è la giustizia: un uomo che sente vibrare dentro di sè la profonda responsabilità di quel che è e di quel che fa. Si chiama sincerità, si chiama umanità. Ed è l’inizio di ogni misericordia.