Mentre su portali e siti ortodossi continua la bufera del “dopo-incontro” tra il Patriarca e il Papa, la vita a Mosca riprende. Ma con una domanda in più, tra la gente comune, ad esempio tra i miei colleghi del Centro “Biblioteca dello Spirito”. Che cosa cambia da oggi? Che significato potranno avere nella vita di tutti i giorni le parole così impegnative (“condividiamo la tradizione spirituale del primo millennio, deploriamo la perdita dell’unità, abbiamo una missione da portare avanti in comune…”) che si sono detti Francesco e Kirill?
Leggendo la massa di reazioni tra lo sconcertato, lo sdegnato e l’apocalittico che si affollano in internet viene da chiedersi fino a che punto in realtà gli ambienti ortodossi siano rimasti turbati dall’abbraccio fraterno del loro Primate con il capo della Chiesa cattolica. Il Patriarca Kirill e gli ecclesiastici che lo accompagnavano, quali che fossero gli input del Cremlino, all’Avana hanno vissuto un’esperienza reale di comunione. L’eco di questa commozione l’ho vista vibrare in molti, sia pure insieme a interrogativi e paure. Non riesco a scacciare l’impressione che questa campagna anticattolica a posteriori sia orchestrata dall’alto, dagli stessi “organi” che gestiscono abitualmente le percentuali dei partiti alle elezioni, le percentuali dei rispondenti ai sondaggi e così via… Non è difficile creare un mondo virtuale che risponde al mandato dei vertici di lasciare immutato il clima all’interno del paese, ma non necessariamente corrisponde al reale sentire della gente.
E qual è il reale sentire della gente? Dal mio osservatorio vedo farsi avanti temi nuovi, fino a poco tempo fa impensabili, che sono espressione di una nuova coscienza che sta nascendo all’interno della Chiesa: si comincia, ad esempio, a parlare dei “laici”. Nell’ortodossia, così segnata dalla santità monastica, da un’ascesi rigorosa che tende a rifuggire il mondo, ci si comincia a chiedere come diventare santi nella vita quotidiana, alle prese con i problemi di tutti. È uscito — e l’abbiamo presentato di recente — un testo intitolato I laici: chi sono?, una raccolta di interviste a persone diverse per età, formazione e condizione sociale (uno psicologo, un docente universitario, una contadina, un artista, un letterato, una madre di famiglia, ecc.), accomunate dal senso di responsabilità che nasce dall’incontro personale con la fede.
Sta nascendo anche il termine “volontariato”, espressione dell’autocoscienza e dell’impegno dell'”io”, dalla sua scoperta dell’altro come bene, come ricchezza inestimabile per sé. E, infine, si ritorna al termine “paternità”, talmente abusato in epoca sovietica da essere diventato perlomeno ambiguo, se non odioso.
Proprio ieri sera, alla “Biblioteca dello Spirito”, sul tema della paternità si sono misurati il sacerdote ortodosso Andrej Lorgus e mons. Paolo Pezzi, arcivescovo cattolico a Mosca. Un esempio di come “poter unire gli sforzi per testimoniare il Vangelo di Cristo, rispondendo alle sfide del mondo contemporaneo”, direbbero Francesco e Kirill. Non siamo in Italia, il gender qui non fa notizia. E non per bigottismo: è perché la gente ha fame e sete di risposte per la propria vita, e le domande — sia pur poste in termini generali — svelano intime ferite, dolorose e profonde: come continuare a essere figli di padri che sono stati complici della menzogna, della violenza? E viceversa, come non aver paura della responsabilità paterna, che eccede la misura delle proprie forze? Così, nell’incalzare delle domande, attraverso contributi diversi ma complementari di due uomini appassionati di Cristo, un cattolico e un ortodosso, si è delineata un’immagine di paternità che trova il suo vertice nella drammatico dialogo nell’Orto degli ulivi. Una paternità definita come “reale” nella misura in cui non si limita ai fattori biologici e neppure psicologici, ma arriva ad abbracciare la persona nel suo fattore costitutivo, nel mistero che la pone in essere. Una paternità che indica significati, che educa alla libertà, attende con pazienza i tempi del figlio ma si dimostra esigente nel rimandarlo continuamente all'”oltre” per cui è fatto.