È morta poco più che cinquantenne lo scorso Natale in una sciagura aerea in cui è caduto nel mar Nero, nei pressi di Soci, un aereo russo diretto in Siria, sul quale oltre ad aiuti umanitari viaggiavano il Coro dell’Armata Rossa e alcuni giornalisti. Da anni il nome della “dottoressa Lisa” (tutta la Russia la conosce semplicemente così) è diventato una sorta di emblema di umanità e altruismo, e si circonda di un alone di stima e di simpatia che a pochi è dato di conquistarsi.
Nell’autunno 2014 la “dottoressa Lisa” – Elizaveta Glinka, medico anestesista pediatrico e specialista in cure palliative, si era addirittura aggiudicata il primo posto in un sondaggio sui “100 politici che aprono maggior prospettive”. Ma il suo sogno non era la politica, era quello di aprire il “primo ospedale per i poveri” a Mosca, un “ricovero in cui poter accettare tutti senza eccezione, senza assicurazione: profughi, senzatetto, malati psichici e così via”.
Ha cominciato a lavorare creando il primo hospice oncologico a Kiev nel 1999, sulla base dell’analoga esperienza a cui aveva contribuito a Mosca, quando la lunga malattia della madre l’aveva costretta a rientrare dagli Usa dove si era trasferita in seguito al matrimonio; poi le cose sono andate via via crescendo. “Finché una persona vive è viva, anche se ha una diagnosi mortale”, era il principio della dottoressa Lisa, e su questo principio ha creato a Mosca l’associazione “Il giusto aiuto”, che ha cominciato a prendere in considerazione le categorie di persone tuttora ignorate ed emarginate dalle strutture pubbliche e private: senzatetto, malati terminali, pensionati soli, invalidi, disabili.
Ad esempio, organizzando un servizio di autoambulanza che va in soccorso di quanti non vengono raccolti dal pronto soccorso; una mensa, tutti i mercoledì alla stazione Paveleckaja, che non si limita a dispensare settimanalmente circa 300 pasti ma cerca di capire cos’hanno alle spalle i poveri e senzatetto che la frequentano, e riesce a reinserire nelle famiglie o a reintegrare nella società decine di persone all’anno. Solo qualche dato, esposto qualche giorno fa a una tavola rotonda in sua memoria, basta a renderci conto delle dimensioni che il problema ha ancor oggi: i “senza dimora” che si aggirano per le vie della capitale russa sono in media intorno ai 15mila (con fluttuazioni stagionali, che vedono d’estate questo gruppo diminuire fino a 5mila, e d’inverno aumentare fino a 18mila); di essi il 14 per cento è moscovita, il 66 per cento viene da altre città russe, mentre il rimanente 20 per cento ha la cittadinanza straniera. Anche la loro composizione è molto diversa: c’è chi si è scelto una particolare “forma di vita”, chi ha perso la casa in seguito a conflitti familiari (causa più frequente), chi è uscito da un orfanotrofio e per vari motivi ha perso l’abitazione assegnatagli dallo Stato, e chi infine esce dal carcere e non ha più dove andare.
È un’attività “contagiosa”, si è detto, quella della “dottoressa Lisa” e dei suoi volontari, che in questi anni ha suscitato l’attenzione dell’opinione pubblica e messo in moto altre forze sociali che si ispirano alla sua figura. Eppure, più volte Elizaveta Glinka si è trovata a prendere decisioni non facili, talvolta politicamente strumentalizzabili, che le hanno attirato pesanti critiche proprio dai suoi amici e compagni di battaglia, i difensori dei diritti umani: ad esempio, quando nei primi mesi del conflitto in Ucraina ha letteralmente fatto carte false per poter evacuare in treno in Russia malati gravi, in particolare bambini feriti o mutilati da mine e bombardamenti.
Facendo la spola tra Mosca e Doneck, Slavjansk, Kramatorsk, Char’kov, constatando negli ospedali locali una catastrofica carenza dei medicamenti e degli strumenti più basilari, non ha avuto remore nel far appello al governo russo, nel bussare alle porte di coloro a cui – così è stata accusata – dava modo di mostrarsi generosi, anche se in realtà erano loro stessi a provocare il conflitto. “Mi scusi, ma non ho né forze, né tempo, né voglia di fare delle analisi – dichiarava in quei mesi a un giornalista, nel pieno della polemica –. Ho uno scopo concreto. Il mio compito è mettere in salvo bambini feriti e malati, ad ogni costo. Lo sottolineo, a ogni costo! Cercherò di salvarli ad ogni costo, mi metterò d’accordo con chiunque, li porterò da qualunque parte, foss’anche in Cina! Purché possano vivere. Perché non sono stata io a dare la vita a questo bambino. E se qualcuno gliela toglie, non è affar mio capire perché e come mai. Io sono un medico. Il mio compito è tirarlo fuori dall’inferno e ricoverarlo in un ospedale normale”.
Il “contagio”, che anche in questo primo anno dalla scomparsa della dottoressa Lisa sta continuando a diffondersi, in realtà va oltre la problematica medica o assistenziale, è racchiuso nel suo sguardo alla persona concreta, all’umanità sofferente che va salvata, protetta, curata, rispettata. Basta leggere qualcuno dei suoi resoconti, dove protagonisti sono sempre i singoli, come in questa scena di addio alla partenza di un convoglio da Doneck: “Salutando i genitori dai finestrini, i bambini premevano le manine contro i vetri. E i padri, le nonne che li salutavano, premevano le loro mani adulte sulle manine dei bambini, ma già separati da esse dai vetri, dall’altra parte. Stavano lì fermi, incollati al vagone infangato, sembrava che volessero arrestarlo, non lasciarlo andar via. Sapevano che forse era l’ultima volta che vedevano i loro bambini. E piangevano – solo io dovevo cercare di non piangere… Lo dico onestamente, in vita mia e in questa guerra ho visto di tutto, ma niente che fosse più tragico di quelle mani”.
“Il giusto aiuto”. Non in nome di un astratto principio di equità o di norme etiche interscambiabili, ma in nome dell’imperativo che ci portiamo dentro la nostra stessa natura, inestirpabile: “Aiutare le persone concrete nella sventura, indipendentemente dalle loro convinzioni, dal partito politico cui appartengono, indipendentemente dal fatto che siano delinquenti o gente per bene, indipendentemente da tutto, semplicemente perché sono persone“.