Qualche settimana fa ho scritto che il titolo del Meeting di Rimini – «Emergenza uomo» – è coraggiosamente preciso in quanto mette al centro il punto più maltrattato dalla nostra cultura: l’io, il singolo, unico ed irripetibile io. Scrivevo che la suprema esigenza di questo io, cioè il desiderio di permanenza anche oltre la morte, è contraddetta dall’ipotesi panteista dello scioglimento dell’io nel tutto. Al contrario, il capolavoro assoluto della poesia sgorgata da un animo cristiano – la Divina commedia – è la celebrazione di tanti «io» visti nella loro dimensione eterna ma nient’affatto impersonale; nell’oltretomba dantesco ogni dannato, penitente o beato conserva intatte le caratteristiche che ne hanno fatto quella persona lì e non un’altra, mantiene il suo concreto nome. Ma l’inferno mostra che il peccato ha come conseguenza lo sfigurarsi dell’io; la condizione d’eterna dannazione non è nient’altro che il cristallizzarsi per sempre dello sfacelo che l’io, contraddicendo la sua natura, ha prodotto peccando.
Dunque, in preparazione al Meeting, propongo alcuni esempi di questa dinamica, scegliendoli fra quelli che mi sembrano più facilmente accostabili alla nostra contemporaneità.
A dir la verità, il primo esempio che voglio fare sembrerebbe contraddire quanto appena affermato: gli ignavi sono infatti l’unico gruppo di dannati tra i quali Dante non nomina nessuno (salvo il famoso autore del «gran rifiuto», papa Celestino V, che però, appunto, non è chiaramente identificato). Ma procediamo con ordine. All’inizio del canto terzo dell’Inferno, Dante, accompagnato da Virgilio, si trova di fronte alla porta che dà accesso al regno dei dannati. La scritta che la sovrasta è minacciosa – «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate» -, ma Virgilio rincuora il suo discepolo e i due entrano nell’antro buio. Sono uditive – «sospiri, pianti ed alti guai» – le prime impressioni che colpiscono Dante, che ne chiede la provenienza alla sua guida. Si tratta, risponde il poeta latino, delle anime di «coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo», cioè coloro – la tradizione li ha chiamati «ignavi» – che si trovano in una specie di anti-inferno al di qua del fiume Acheronte.
Sono l’immensa turba – «non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta» – degli uomini che non hanno accettato in vita di essere degli «io», di fare delle scelte, fossero anche sbagliate, di prendere posizione, di sacrificarsi per qualcosa, di rischiare; sono gli uomini che hanno sepolto le proprie aspirazioni, occultato le domande, anestetizzato i dolori. Essi, dice Dante con parole tremende, «mai non fur vivi».
Non appena i suoi occhi si abituano all’oscurità, il pellegrino vede anche come sono castigati gli ignavi: devono eternamente correre dietro ad una lacera insegna – evidente contrappasso del fatto che in vita non si sono mai dati pena per niente – e per di più sono punti da mosconi e vespe tanto insistentemente che il sangue prodotto da tali punture, misto alle lacrime, viene raccolto da schifosi vermi che strisciano per terra.
L’ignavo è un io colpevolmente inconsistente, volutamente infedele al proprio cuore, deciso a non assumersi responsabilità, a non implicarsi mai, a schivare ogni decisione che costi. Così facendo il suo volto si sfigura fino all’irriconoscibilità e il suo irripetibile nome si cancella, privando la storia del suo contributo unico, quello per cui era stato messo al mondo.