Abbiamo una guerra civile in Europa. Gli sforzi per porvi fine ci sono e c’è da sperare che alla fine prevarranno, ma già adesso è in atto un lavoro per superarla, un lavoro che bisognerà continuare anche in tempo di pace, in Ucraina come nel resto d’Europa. Lo “stato di guerra” è prima di tutto una condizione psicologica e morale, quando uno è disposto a mettere tra parentesi i valori umani universali e a dimenticare tutto ciò che lo accomuna al nemico; su questa base si può sfrontatamente manipolare la realtà, farsi scudo dei civili, gioire dei morti. Ma, talvolta, proprio quando si tocca questa soglia si avverte una vertigine di orrore, uno shock benefico che rimette in moto quel che resta della civiltà cristiana che ci ha foggiati quali siamo, e aiuta ad uscire dallo stato di guerra interiore.
Qualcuno arriva a capire che il vero confine tra le parti non è realmente etnico né politico, come ha sottolineato Alla Vajsband, filosofo ucraino: «Oggi si usa dividere l’Ucraina fra attivisti giallo-azzurri e attivisti col nastro di San Giorgio, fra patrioti e traditori, fra separatisti e paladini dell’unità territoriale. Ma esiste una frattura psicologica ben più profonda che divide la nostra società in due campi. Quelli che tripudiano davanti ai cadaveri dei nemici, perché sono nemici. E quelli che non possono tripudiare, perché sono davanti a dei cadaveri». È quello che aveva detto ancora più esplicitamente, a suo tempo, il patriarca ortodosso serbo Pavle davanti a una guerra civile ancora peggiore, nel Kosovo: “Non siamo noi a scegliere il paese dove siamo nati, né il popolo in cui siamo nati, né l’epoca in cui siamo nati, ma scegliamo una cosa soltanto: se essere uomini o non esserlo”.
Questa scelta così radicalmente personale (tripudiare o no, essere uomini o no), si ripresenta oggi a ciascuno, in Russia e in Ucraina. Ad esempio Elizaveta Glinka, soprannominata “dottor Liza”, famosa per aver fondato i primi hospice gratuiti per malati terminali dell’ex Unione Sovietica: il 28 maggio è arrivata da Mosca a Doneck per rendersi conto della situazione e “dare una mano”. La sua posizione è assolutamente non di parte, tutte le forze politiche e tutti i fronti nazionali possono collaborare per aiutare le vittime della guerra: “Purtroppo molti medici hanno abbandonato il loro posto. …Quelli che sono rimasti sono dei veri eroi, molto coraggiosi, molto calmi. Quando arriva un ferito mascherato, nessuno chiede di che parte sia. Si aiuta chiunque ne abbia bisogno. Nessuno mi ha mandato qui. Ho ricevuto una grossa cifra dal deputato Sergej Mironov, che ha fatto un bonifico sul mio conto e mi ha detto: ‘Se te la senti, vai’. Mentre il finanziere Michail Prochorov mi ha fornito una carta di credito con la quale comprare tutto quel che serve. Con lui stiamo lavorando per creare un corridoio umanitario”.
Tanto per chiarire: Mironov è dirigente del partito “Russia giusta” che di fatto spalleggia il governo, ed è stato inserito nell’elenco delle personalità russe colpite da sanzioni economiche in Occidente dopo i fatti di Crimea; mentre Prochorov appartiene all’opposizione democratica ed è stato l’antagonista di Putin alle ultime elezioni.
E per chiarire ancora, l’aiuto umanitario di cui dottor Liza parla non è semplicemente un atto di “buon cuore”, ma è una posizione umana che diventa culturale, sociale, e alla fine può diventare anche politica perché, come ha detto il filosofo russo Andrej Desnickij: “al potere serviamo irritati e divisi, perché così ci può salvare gli uni dagli altri: i clericali dagli atei, gli hipster dai proletari e via discorrendo”. L’opera del bene comune invece unisce e riconcilia. Questa premessa indispensabile al superamento interiore della guerra è come una nuova Pentecoste con degli addentellati molto concreti. L’archimandrita Savva Mažuko, monaco ortodosso di Gomel’, in Bielorussia, ha ricordato che la torre di Babele è stato il primo tentativo di Stato totalitario nella storia umana, dove si parlava una sola lingua perché non c’erano “diversi” ma un’unica massa senza volto. Dio però ha distrutto questa falsa unità perché Lui vuole l’unità ad immagine della Trinità. Infatti, quando lo Spirito Santo è sceso sugli apostoli, questi hanno incominciato a parlare lingue diverse e non una sorta di “esperanto degli angeli”; in quell’istante è iniziato l’amore per le concrete lingue degli uomini, per l’infinita varietà dei volti, delle culture, delle biografie.
Tra gli uomini raccolti da Dio e uniti nel suo nome non c’è bisogno di eliminare nessuna identità culturale o linguistica: l’odiosa divisione di questo mondo, di cui parlava san Sergio di Radonež (di cui si celebrerà quest’anno il settimo centenario della nascita), si vince proprio preservando la fisionomia unica e irripetibile di ciascuno: uomo, popolo, lingua o cultura.