In termini di politica industriale nel nostro Paese si è sempre pensato poco e fatto ancora meno. Per fortuna, verrebbe da dire in certi casi visto che, per esempio, negli anni settanta qualche commissione di studio ministeriale consigliò di non investire nell’arredamento e nel tessile-abbigliamento, settori maturi per un’economia come la nostra: non seppero vedere dietro l’arredamento il design, dietro l’abbigliamento la moda e sappiamo come è andata a finire.
Ma perché stupirci: se fossero stati imprenditori avrebbero fondato aziende, essendo intellettuali, consulenti, studiosi si limitavano a mettere in bella copia il giorno dopo quello che era successo il giorno prima. La politica industriale, utilissima per un Paese, deve togliere, non mettere. Deve eliminare vincoli burocratici a chi vuole agire, non fare piani. Deve stimolare l’azione, anche senza elargire incentivi, non dare obiettivi. La decisione circa l’adozione del nucleare, al di là di quello che si pensa in materia, è sicuramente una decisione di politica industriale: ipotizzare che possa avere una qualsivoglia ricaduta sulle singole imprese da qui a dieci anni, è tuttavia, assolutamente impensabile.
Bisogna dirlo: solo chi non conosce questo benedetto Paese, o pur conoscendolo non ha convenienza ad ammetterlo, può credere che quello che è avvenuto di buono nel mondo delle imprese negli ultimi cinquant’anni sia dovuto, se non molto indirettamente, a decisioni di politica industriale. Certo, il “piano casa” di Fanfani ha, per esempio, sostenuto e sviluppato il settore edile, ma non era questo l’obiettivo primario. Al contrario la cassa per il Mezzogiorno può essere considerata anche un intervento di politica industriale, ma, anche qui, sappiamo come è finita.
E l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha sicuramente agevolato la nascita del made in italy con la proliferazione delle piccole e medie imprese e la nascita conseguente dei distretti, ma se Brodolini e Giugni l’avessero previsto si sarebbero affrettati a cancellare il punto. No, il futuro delle aziende, di qualunque tipo di azienda, è in mano a chi, con diverse responsabilità e talenti, ci lavora. Un’azienda mal gestita o decotta non la salva la politica industriale, un’azienda ben condotta nessuna carenza di politica l’affosserà mai.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA >> QUI SOTTO
Il caso Tirrenia dimostra, anzi, che i soldi pubblici spesi per anni sono risorse buttate via che hanno permesso il consolidarsi di un gruppo dirigente incapace di contrastare la concorrenza: sarebbe stato più economico ristrutturare l’azienda, a partire dal vertice, e intervenire con adeguati sussidi a chi fosse rimasto momentaneamente senza lavoro.
Si è anche parlato spesso di Germania in questi ultimi giorni. E ancora una volta, in senso lato, di politica industriale. Per Draghi deve essere quello il campione da seguire, per Tremonti sarebbe un gioco infantile, se non altro perché non lo ha inventato lui. Ma dove sta la novità?
Qualcuno ha detto che fino a ieri seguivamo la Gran Bretagna, ma era vero solo per certe èlite che in quella direzione pilotarono le privatizzazioni: da anni, dai tempi di De Gasperi e Adenauer, la nostra economia, quella reale non quella di carta, guarda al mondo teutonico come quello da cui imparare: là sono da sempre molti clienti delle nostre imprese, quelli sono i parametri di qualità a cui ci siamo sempre ispirati, il marco era la valuta di riferimento e la Monaco-Modena è stata per il nostro Paese la prima autostrada internazionale dalla forte valenza economica.
Non a caso continuiamo, come loro, a essere un’economia fondamentalmente manifatturiera, la quinta al mondo; non a caso manteniamo, come loro, molto alte le percentuali di export sul totale delle attività. Senza che nessun governo indirizzasse la loro azione, le imprese lo hanno sempre saputo: quello è naturalmente il modello più vicino al nostro.