I Mondiali e la nostra sete di bellezza

Iniziano i mondiali in Brasile, un paese pieno di contraddizioni, in crisi, come il resto del mondo. Eppure, nonostante tutto, anche nel calcio cerchiamo la bellezza. LUCA DONINELLI

E’ una cosa strana, molto strana. Se ci sembra ovvia, se non banale, è perché non ci riflettiamo abbastanza. 

E’ strano che tutti noi attendiamo con una certa impazienza l’inizio dei Mondiali di calcio. Chi vincerà? Quali squadre arriveranno in semifinale? Quali giocatori brilleranno di più? Quali nomi nuovi si affacceranno alla ribalta?

E’ un teatro, lo sappiamo tutti, ma è proprio sull’importanza del teatro che dobbiamo riflettere. Noi pensiamo che esista da un lato il teatro e dall’altra la dura realtà. Poi però demandiamo al cosiddetto teatrino (talk show, salotti ecc.) il compito di occuparsi della dura realtà. Delle cose serie.

Il teatrino può, il teatro no. Strano? 

Per nulla. La ragione è semplice: il teatrino lascia le cose come stanno, mentre il teatro non se lo può permettere, il teatro porta a casa nostra la follia, la morte per mare, la demenza della guerra, gli scandali insoluti, senza troppi buoni sentimenti. E ci ricorda che questo di ricondurre il Diverso nella nostra vita, obbligando la nostra ragione a farci i conti, è sempre stato il compito principale della cultura.

Ma torniamo ai Mondiali. E alle preoccupazioni che li circondano. Sappiamo che il Brasile è in una fase di grave difficoltà economica, che questa difficoltà sembra causata soprattutto dalla politica sbagliata dei suoi governanti, che lo scontento sociale cresce, e che una parte importante di quel paese ha assunto nei confronti della manifestazione un atteggiamento ostile: essa servirebbe solo a dar lustro all’élite al governo, mentre il benessere generale continua a scendere. 

Non si sa nemmeno se augurarsi che il Brasile vinca o perda questi Mondiali: nell’uno come nell’altro caso si prevedono guai. In altre parole: il teatro farà il suo corso, com’è sempre stato. 

Non è il caso di essere ottimisti, questo è chiaro. Tuttavia non è il caso di sentirci intelligenti solo perché facciamo professione di pessimismo, fino a comporre l’equazione (di per sé demenziale) “pessimismo=realismo”. 

In definitiva: sappiamo tutti che questi Mondiali non serviranno a risolvere alcun problema, che potrebbero anzi crearne di nuovi, e che alla fine il mondo non starà certo meglio di prima. 

Eppure li aspettiamo. Cosa ci riserverà Leo Messi? Quali magie ci serviranno Ronaldo e Iniesta? Peccato non vedere anche Ibra, Bale, Ribery. 

Le riflessioni sull’argomento possono essere innumerevoli, ma io vorrei soffermare l’attenzione su due punti, forse i più semplici, i più banali, ma anche – credo – i più tenaci. 

Primo punto. L’appartenenza. Lo sport in generale e il calcio in particolare suscitano in noi sentimenti antichi, che ci vengono da lontano. Se il tempo in cui viviamo sembra aver sotterrato ogni idea di appartenenza in nome di un’autodeterminazione quasi capricciosa alla quale diamo il nome di diritto (tutti hanno il diritto di aver figli, spiega la consulta a proposito della fecondazione eterologa – ma voi ditemi: che c’entra l’aver figli con i diritti, che diritto è?, vogliamo chiarirci il senso di questa parola, o la lasceremo fluttuare nei sentimenti del momento?); ebbene: il calcio conserva intatto quel senso di appartenenza: io tifo Italia perché sono italiano, perché appartengo all’Italia, proprio come si diceva da bambini: io sono dell’Inter, io sono della Juve. Essere di qualcuno: vi sembra poco? Quale solone ce lo viene a spiegare nei salotti tv?

Secondo punto. La bellezza. Abbiamo sete di bellezza, di essere sorpresi dalla bellezza. Le categorie estetiche sono andate a farsi friggere, capire la bellezza di Brunelleschi o di Masaccio è difficile, però il bisogno resta intatto: così il fascino di opere più “facili”, come quelle di Gaudì, o come i nuovi grattacieli di Milano, ci attira inesorabilmente. Ancora conserviamo nel cuore la bellezza degli scatti di Pantani, e la sua fine ingiusta resta ancora inaccettabile. 

E attendiamo con ansia tutt’altro che irragionevole di essere sorpresi dalla bellezza estemporanea, imprevedibile, incalcolabile – e perciò in qualche modo più pura, meno grande ma più pura di qualsiasi opera d’arte – di una giocata, di un gol, di un’azione di gioco. 

Attendiamo l’ordine mirabile che si rivela di schianto da un’intuizione alla quale improvvisamente undici giocatori obbediscono, perché sappiamo – nonostante tutto il pessimismo – che la vita, la vita vera, è sì piena di tragedie, ma anche le tragedie non sarebbero tragedie se la vita non somigliasse un po’ a quella bellezza imprevedibile.

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