Ho raccolto alcuni messaggi di giovani con cui ho avuto in qualche modo a che fare in questo periodo. Eccoli. “Entro al lavoro la mattina alle 9 e alla sera non ho orario. Capita spesso che alle 19 mi arrivi una nuova pratica da sbrigare subito. Allora telefono a mia moglie (abbiamo un bambino di pochi mesi) per dirle ancora una volta che non torno a cena”: così un giovane avvocato. Dell’aspetto economico mi parla invece una giovane architetta: “Lavoro da due anni a 1.250 euro lordi (800 netti), cresco professionalmente, infatti mi assegnano progetti con responsabilità crescenti, ma mi negano sistematicamente l’aumento anche se lo studio va benissimo. La motivazione? Dicono che mi stanno formando”.
Questo invece è il messaggio di un giovane avvocato di Milano: “Prendo 1.000 euro lordi e lavoro dalle 9,30 alle 19,30 con un’ora di interruzione. Ho appena fatto l’esame di Stato con un breve periodo di studio e spero mi aumentino lo stipendio, ma non è detto”. A Palermo va anche peggio: “Sto facendo il periodo da praticante in attesa dell’esame di Stato e benché lavori a tempo pieno non mi pagano neanche un euro perché dicono che già mi danno le firme per arrivare all’esame”.
Non è difficile capire come le nubi si addensino anche sugli altri aspetti della vita: “Lavoro per una grande multinazionale e vorrei sposarmi a breve ma non so come fare perché il mio lavoro presso i clienti non ha orari e mi chiedo come possa essere compatibile con una famiglia”, dice un altro. Per le donne, come sappiamo, ci sono problemi ulteriori. Eccone uno: “Lavoro in banca, contratto a tempo indeterminato e ho partorito da poco. Da quando sono rientrata in ufficio mi hanno messo in un angolo, una sorta di mobbing silenzioso, quasi a farmi pagare il fatto di aver avuto un figlio”.
In molti ambiti professionali invece per i giovani regna la confusione: “Mi sono laureato da poco e vorrei insegnare ma non c’è alcuna chiarezza su quale sia il modo per inserirsi nella scuola: concorso pubblico futuro, Tfa, o i nuovi progetti del ministero che sono insostenibili (3 anni di insegnamento/formazione a 500 euro al mese)”, dice un giovane insegnante. Oppure questo: “Nel mio centro di formazione professionale a livello di contratto non c’è chiarezza: continuano a cambiare i criteri e ogni anno vengo licenziato e riassunto con mesi scoperti”, aggiunge un altro. E infine il grande tema degli stage: “Nella multinazionale di vendite online in cui lavoro si va avanti per stage, ma anche il contratto a tempo indeterminato non dà sicurezze: assumono e poi licenziano dopo tre anni preferendo pagare la penale prevista dal Jobs Act: l’azienda comunque risparmia tenendo i lavoratori precari”.
Si potrebbe continuare all’infinito, ma questi esempi danno un quadro della situazione lavorativa di molti neolaureati. Certo, non per tutti è così: ci sono figure professionali, quali ingegneri, medici o economisti, che percepiscono stipendi più alti, hanno contratti più stabili e carriere più sicure. Ma tra i giovani di 15-34 anni circa un occupato su 4 svolge un lavoro a termine o una collaborazione.
Non si tratta di dover garantire una vita facile ai giovani, che devono essere disposti a lottare come tutti nella vita. Ma non possiamo rimandare ancora a lungo la risposta a queste domande: cos’hanno in mente tutti quei datori di lavoro (architetti, avvocati, multinazionali, scuole pubbliche, piccole imprese, multinazionali…) quando decidono di sfruttare i giovani? Stipendi bassi, contratti di lavoro precari, richiesta di orari eccessivi, fastidio o manifesta ostilità rispetto alla maternità (benché tutelata per legge), incertezza o ricorso frequente nei concorsi pubblici a ope legis che tutelano solo gli anziani? Si può capire quando l’azienda è in crisi, quando la non profit fa fatica ad andare avanti, quando si è in una start up. Ma perché professionisti che guadagnano cifre spropositate o multinazionali che staccano dividendi enormi devono dare stipendi da fame ai giovani? Perché li devono spremere come limoni pensando che non hanno diritto a una vita privata? Perché non offrire loro stabilità?
Purtroppo sfruttamento, precarizzazione opportunistica e prevaricazione non fanno più notizia, ma continuano ad avvelenare il clima, al punto che l’ultimo rapporto Censis ha etichettato la cifra del disagio sociale con la parola “rancore”. E non deve tranquillizzare il fatto che la situazione è tragica un po’ dappertutto nelle economie occidentali. Ci vorrà ancora molto per decretare il fallimento di un modello capitalistico che non mira affatto a diffondere benessere in modo equo?
C’è un’altra domanda importante però: è proprio vero che coloro (non pochi) che scommettono sui giovani rispettandoli come persone e come lavoratori ci perdono? Ci si guadagna di più a trattare i giovani da schiavi coprendo tale scelta con ogni pretesto di presunta razionalità economica e falsa meritocrazia o alleandosi con loro, scommettendo sulla loro voglia di imparare e di fare, investendo sulla loro crescita e rispettando le loro condizioni di vita, non solo professionali, ma anche umane?
Coltivare la futura classe dirigente è la vera scommessa che il nostro Paese — e non solo — deve affrontare. Speriamo che papa Francesco non rimanga da solo a lungo nel ricordarci che il re è nudo…