Esserci al momento giusto

È come se la società generata dal Vecchio Continente fosse attraversata da un malessere oscuro dinnanzi al quale ciò che prevale è la reazione emotiva. FEDERICO PICHETTO

Non c’è stato fatto in questi ultimi mesi da cui l’opinione pubblica occidentale non sia stata scossa e chiamata in causa: dalla morte dei vignettisti dello Charlie Hebdo fino all’apertura dell’Expo a Milano, ogni avvenimento è stato come un contraccolpo che ha calamitato tutta l’attenzione dei media e ha concentrato il dibattito pubblico su emozioni, pensieri e sentimenti che è complesso riassumere in poche righe. Il punto è che queste vicende, in certi casi epocali come la tragedia nel Canale di Sicilia o il terremoto in Nepal, sono diventate una sorta di paradigma del modo quotidiano con cui l’uomo occidentale affronta ogni fattore della propria vita, dalla morte alla nascita, dal matrimonio allo studio, dal lavoro alla politica. 

È come se la società generata dal Vecchio Continente fosse attraversata da un malessere oscuro dinnanzi al quale ciò che prevale è la reazione emotiva che subito si trasforma in pensiero e che, altrettanto repentinamente, diventa azione con la quale si ha la malcelata presunzione di risolvere il problema. La velocità con la quale ogni settimana il mondo volta pagina è impressionante, ma forse è ancora più impressionante la velocità con la quale ogni singola persona, nelle proprie singole giornate, cambia continuamente oggetto di attenzione generando dentro di sé una dispersione mentale che indebolisce la capacità di giudizio e di decisione, rendendo l’Io sempre più fragile, e quindi più ricattabile, rispetto alla realtà. 

Ci troviamo quindi in presenza di un decisionismo emotivo, privato e pubblico, che ci disconnette dal presente e che ci rende meno sicuri di tutto, perfino dell’affetto delle persone che ci circondano. Pare che sia dunque questo il prezzo che dobbiamo pagare ad una società che suddivide la vita in temi, in problemi, e si dimentica che l’esistenza non è un susseguirsi di situazioni finite, ma un processo nel quale occorre permanere per poter cambiare, restare per poter incidere. 

La quinta domenica di Pasqua del rito romano riporta alla nostra attenzione tutto questo con un termine desueto che appare, ad una prima lettura, astratto e sterile: il termine “discepolo”. Saulo di Tarso, appena diventato discepolo del Signore, giunge a Gerusalemme dove i giudeo-cristiani della città non lo accolgono con favore, ma con paura. Come se non bastasse, i giudei di lingua greca invece, conoscendone la verità della conversione, lo reputano un traditore verso cui accusano rabbia e risentimento. Saulo è così costretto ad andarsene dalla città per tornarsene a casa propria perché è divenuto discepolo, ha iniziato cioè, a seguire Qualcuno, Qualcosa, che lentamente lo ha trasformato rendendolo un uomo diverso, in rottura col proprio passato perché saldamente ancorato ad un nuovo e disarmante presente. 

Ciò che cambiò il settarismo di un certo cristianesimo delle origini o la tracotanza dell’Impero Romano non fu una reazione emotiva e nemmeno un’azione premeditata: fu la sequela di un uomo che — dentro la realtà — permaneva in un dialogo incessante con una Presenza che lo precedeva e lo guidava. Senza quel dialogo oggi la Chiesa e il mondo non sarebbero quelli che sono, non sappiamo se sarebbero migliori o peggiori, ma certamente sarebbero diversi. Per questo nel Vangelo di questa liturgia Gesù annuncia, senza mezzi termini, che “senza di Lui non possiamo far nulla”, perché è nella relazione costante e continua con Uno che c’è che le cose si fanno, altrimenti — semplicemente e soltanto — si iniziano. 

Quante volte la vita dei singoli o delle nazioni si mostra come una sequenza continua di desideri interrotti, di azioni mancate, di decisioni non compiute. Quante volte all’origine della fragilità di un matrimonio o di un’amicizia c’è proprio questa incapacità di stare, di permanere e di rimanere, nel rapporto con qualcosa di reale, di vero, di presente che — proprio perché sempre vivo — continuamente si rinnova, continuamente cambia, continuamente si trasforma. Davanti alla congerie dei fatti accaduti in questi mesi, come davanti alle questioni dei nostri Stati o della Chiesa, ci sentiamo confusi e dispersi non perché la realtà sia più complessa o diversa che in passato, ma perché manca questa discepolanza, questo dialogo, che ci permette di vivere il presente come il luogo migliore possibile, come il luogo in cui può riaccadere il miracolo del bene, del bello e del buono. 

Tutta la nostra vita attende un incontro e questo incontro non avviene attraverso un’idea o una sensazione emotiva: esso certamente genera emozioni e pensieri, ma inizia, accade, per un avvenimento sensibile che incrocia tutta l’ampiezza del nostro Io e ci rende inesorabilmente discepoli. 

Il problema, dunque, non è capire di più, e non è neppure elaborare nuove strategie o assumere decisioni dirompenti: il problema è esserci quando Lui c’è. Il problema è essere presenti in quello che viviamo, aperti a che le cose — qualunque cosa — ci feriscano e ci cambino. Altrimenti passeranno i giorni, cambieranno le parole, si rinnoveranno i discorsi, ma noi rimarremo sempre gli stessi, uomini vecchi che per seguire quello che hanno capito si ritrovano a non seguire davvero nessuno. Ad essere soli e arrabbiati davanti alla tempesta che arriva. Avendo perfino dimenticato di essere amici di Uno che, fino a prova contraria, cammina pure sulle acque.

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