La carica dei 20mila

Il 2017 si conclude in Italia con l'export al record e performance di rilievo globale. Ma è un successo da consolidare con adeguate politiche industriali e del lavoro. GIANNI CREDIT

Job-less but export-booming. La lenta ripresa italiana crea o ricrea ancora un numero limitato di posti di lavoro, ma è sostenuta da esportazioni record. Dunque: nei primi nove mesi del 2017 l’export italiano ha superato i 330 miliardi, con un progresso annuo del 7,3%. Se a fine anno sarà confermato un ritmo di crescita fra il 6 il 7% (e negli ultimi giorni l’Ice si è mostrato ottimista) la cifra tonda di 450 miliardi di euro sembra a portata. Sarà in ogni caso da ricercare qui una delle molle più potenti di quel +1,5% del Pil, che sta finalmente facendo parlare di ripresa anche in Italia, e che nessuna previsione di inizio 2017 azzardava. E se l’Azienda-Italia è ancora in affanno nelle classifiche internazionali del prodotto aggregato (la crescita media Ue 2017 è stimata a +2,2%), le scala rapidamente se veste i panni dell’esportatore: a settembre batteva sia il commercio globale (+4,6% di incremento medio annuo atteso) sia la performance esterna della Germania, locomotiva economica d’Europa (+6,4%).

Ma in quali mercati sfonda il Made in Italy, in quali settori? Anzitutto nei paesi extra-Ue (+8,4% il giro d’affari), evidenzia l’ultimo rapporto Ice-Prometeia: si confermano i solidi approdi in Usa (+8,8%) e Giappone (+8,3%); si allargano gli sbocchi in Cina (+25,4%) e Russia (+23,8%) e nel Sudest asiatico (+14%). Bene anche il Sudamerica (+16% nonostante dazi in rialzo sui beni di consumo) e gli Emirati del Golfo, come hub degli scambi internazionali. Salvo colpi di scena sarà la meccanica ad aggiudicarsi la palma del miglior settore d’esportazione tricolore di un 2017 caratterizzato soprattutto da un buon trend dei beni d’investimento. Un primato che ha buone chance di essere bissato nel 2018. Ma anche i beni consumo possono chiudere una buona annata per il tessile-abbigliamento e per il legno-arredo: più contenuto il progresso per il food, meno sensibile alle svolte congiunturali.

Il successo va però analizzato. Ad esempio: tre quarti delle 200mila imprese del Sud attive sul fronte export non raggiungono i 250mila euro all’anno di operatività. E’ evidente che sotto la pressione schiacciante della più lunga recessione italiana tutte si sono misurate con i mercati internazionali e moltissime hanno messo a segno qualche punto, per quanto limitato o addirittura simbolico. Per molte è stato un segnale di resilienza, per alcune forse un debutto assoluto. Ma è un profilo dell’Azienda-Italia che si riflette poi in un dato strutturale debole: il fatturato unitario medio per impresa italiana esportatrice è ancora un terzo rispetto a Francia e Germania. A trainare il Made in Italy è dunque ancora un’élite imprenditoriale, che un consenso statistico-economico indica in circa 20mila player, localizzati per gran parte nel Nord della penisola.

Che fare per rendere il 2017 dell’export italiano un vero new normal, un punto di partenza? Le raccomandazioni di Ice-Prometeia sono essenzialmente tre: migliorare i canali distributivi (la quota di mercato italiana in Usa nell’ultimo quinquennio della triade food-fashion-forniture è cresciuta proprio grazie agli investimenti sulla penetrazione distributiva); far funzionare il commercio digitale (dove il prodotto italiano spesso non è originale o non è gestito direttamente da operatori nazionali) e saper sfruttare al meglio gli accordi commerciali internazionali stretti dalla Ue con Paesi maturi e sofisticati, quali Canada, Giappone, Sud Corea. Questi naturalmente i consigli tecnici dei professionisti dell’export. Quelli di politica industriale sembrano più stringenti: vi sono settori su cui puntare e mercati da presidiare, teste di ponte da allargare; e poi, professioni specifiche che attendono “qui e ora” migliaia di giovani italiani adeguatamente formati a progettare, produrre e vendere buoni prodotti italiani.

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