Scuola, oltre l’ostruzionismo dei sindacati

Insegnanti di tutta Italia in piazza lo scorso 5 maggio a protestare contro la riforma Buona Scuola del governo Renzi. Di cosa si è trattato veramente? GIORGIO VITTADINI

Il 5 maggio i sindacati sono scesi in piazza contro il progetto di riforma “La Buona Scuola” del governo Renzi  in quello che è stato definito il “più grande sciopero della storia della scuola italiana”.

La contestazione ha toccato diversi punti mettendo in discussione non solo gli aspetti più strettamente legati agli insegnanti, quali le assunzioni dei precari, ma anche il nesso tra scuola e lavoro, se e come ci debba essere valutazione dei docenti, in che modo il merito debba essere tenuto presente nella carriera, se e come debba essere versato il 5 per mille alle scuole, se debbano essere ammessi sgravi fiscali per chi manda i figli alla scuola paritaria. Tra le contestazioni anche quella relativa al cosiddetto “preside sceriffo”, il dirigente scolastico al quale spetterebbe, secondo la riforma, la scelta degli insegnanti da assumere.

Sono due le domande che nascono dopo questa protesta. E’ lecito che i sindacati, come avviene ormai da decine di anni, pretendano di determinare tutto l’assetto della scuola? Nel merito le proteste e la contestazione sono legittime?

E’ un dato di fatto che all’insediamento di un nuovo ministro della Pubblica Istruzione e al conseguente tentativo di riformare la scuola, sia esso di destra o di sinistra, si assista al medesimo refrain che suona più o meno come un “giù le mani dalla scuola”.

Mentre il 55% degli italiani si dichiara contrario alle ragioni dello sciopero espresse dai sindacati, c’è, nelle ragioni della protesta, una neanche tanto celata pretesa di affermare un potere interdittivo di principio a qualunque intervento si voglia fare nella scuola, andando ben al di là della legittima funzione di tutelare i lavoratori.

La risposta di Renzi non si è fatta attendere e in una intervista a Rtl ha affermato che “deve essere chiaro che noi non lasceremo la scuola ai sindacati, la scuola è delle famiglie e degli studenti”.

Solo tenendo conto di tutti i fattori in campo, in realtà, potrà essere possibile pensare un nuovo sistema educativo. Studenti, insegnanti, dirigenti, genitori e anche mondo del lavoro e territorio, tutti devono essere coinvolti in modo tale che i ragazzi possano scoprire e incentivare le proprie capacità; i genitori applicare appieno il libero esercizio della responsabilità educativa; insegnanti e docenti svolgere in modo efficace una libera professionalità educativa; e imprese e territorio offrire risposte alla richiesta di occupazione e sviluppo.

In un regime democratico il volere popolare si esprime attraverso i rappresentati votati che promulgano le leggi in Parlamento. Per questo usare l’arma dello sciopero contro ogni tentativo di riforma è riprodurre ciò di cui si dice ne I Promessi Sposi: gli aggressori fingono di essere aggrediti. Se è lecito ai sindacati protestare è venuto il momento di permettere anche alle istituzioni di determinare destino e assetto del sistema educativo.

Se c’è una critica da fare al provvedimento La Buona Scuola è invece che è ancora troppo timido nell’andare nelle direzioni in cui vuole andare.

I sistemi educativi dei Paesi europei sono stati ideati a partire dall’Ottocento con alcuni precisi obbiettivi: combattere l’analfabetismo di massa; essere occasione di eguaglianza sociale; favorire lo sviluppo di economie in molti casi arretrate, diventando il polmone dello sviluppo. Così è nata l’esigenza di uno Stato centralista come motore dell’educazione e dell’istruzione che, attraverso il suo apparato ideologico, culturale, amministrativo, “producesse” i cittadini. E’ il sistema in cui annaspa tutt’oggi la scuola italiana con risvolti ormai sfuggiti di mano a tutti, un sistema che sta implodendo per il centralismo burocratico che lo caratterizza.

In tutta Europa sono state da tempo avviate riforme per andare incontro ai cambiamenti strutturali delle società e del mondo del lavoro, intraprendendo strade diverse fatte però di ingredienti comuni, quali maggiore autonomia delle scuole e apertura alle realtà culturali, sociali e lavorative. Nelle esperienze di maggior successo, le famiglie, ma anche gli studenti (che nel nostro Paese sono lasciati sempre fuori dal dibattito come si è visto anche lo scorso 5 maggio), sono invece soggetti attivi, la libertà di scelta dei genitori è garantita, e il processo di decentralizzazione ha esiti positivi.

Non varrebbe la pena una volta tanto indagare seriamente i motivi di queste scelte anche in Italia invece di difendere un sistema che continua ad essere caratterizzato da abbandoni soprattutto per i meno abbienti (150.000 l’anno circa), scarsissima mobilità verticale (che ne è dei “capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi” tutelati dalla Costituzione?), qualità del tutto disomogenea tra regioni, alcune al di sopra e altre drammaticamente al di sotto della media Ocse (come mai, poi, se tutto è deciso in modo rigido e “centralissimo”?), basse paghe agli insegnanti (anche se, per la scuola fino alla secondaria superiore, spendiamo di più rispetto alla maggior parte dei paesi Ocse), nessuna valorizzazione del merito?

Non vogliamo rinunciare a quello che è ancora solo un vagito di novità e che si sta perseguendo con la Buona Scuola. Non vogliamo neanche pensare di essere già alla meta: se riusciremo a non cedere alla piazza, vorrà dire che si è appena usciti dal porto. Ci aspetta ancora una lunghissima navigazione.

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