Italia, metodo Bloomberg

In Italia prosegue il balletto relativo al Decreto sviluppo, che deluderà molto probabilmente le aspettative. Meglio guardare a quanto succede nella città di New York

Il balletto del Decreto sviluppo non è dissimile dalle sei varianti della seconda manovra estiva. Cento articoli, forse sanatorie, forse agevolazioni, forse pensioni, forse patrimoniale (che però è una tassa, l’ennesima), forse infrastrutture e poi, forse, quella strana norma sui trasferimenti della proprietà delle imprese che ha già fatto gridare allo scandalo come “comma anti-Veronica”.



Comunque, delle cose che il buon senso generale esigerebbe si vede ben poco, altro che “la più grande frustata che l’economia italiana ricordi” reclamizzata nell’ormai lontanissimo gennaio. Riduzione dell’Irpef, vera delegificazione, tagli strutturali alla spesa pubblica e alla spesa politica (ma quelle 54mila poltrone “eliminate” che fine hanno fatto?), liberalizzazione delle professioni, abolizione del valore legale della laurea, riforma della giustizia civile… Ma cosa resta dei buoni propositi? E cosa dei i piccoli gesti di buona volontà? Ci sarebbe bisogno almeno di un consigliere regionale disposto a rinunciare a uno dei suoi quattro o cinque assistenti o di un decreto che mantenga la promessa (elettorale) di far pagare l’Iva sull’incassato e non sul fatturato. Ma non avremo né l’uno, né l’altro.



Nessuno possiede la ricetta dello sviluppo e soprattutto lo sviluppo non è questione di ricette. Ma nel pieno del nostro forsennato chiacchiericcio è utile dare un’occhiata a quel che ha annunciato il sindaco di New York Michael Bloomberg lanciando una specie di concorso tra le università americane “per aprire in città un campus di eccellenza in ingegneria e scienze”. Affinché ciò accada, il sindaco ha messo gratuitamente a disposizione tre aree a scelta, tra cui la Roosevelt Island, e la garanzia di migliorie infrastrutturali per 100 milioni di dollari. Bloomberg vuole attrarre i giovani e le loro energie per fare di New York la nuova Silicon Valley.



Il calcolo è che in trent’anni l’università potrà generare 22mila posti di lavoro e 400 nuove imprese. L’esempio viene da Boston, dove le aziende fondate dai laureati del celeberrimo MIT producono ricavi annuali per 2 “trilioni” di dollari. Ma la stessa città di New York in questo decennio, il decennio aperto dalla distruzione delle Torri, è riuscita a fare molto nonostante la crisi: ha contenuto la perdita di occupazione (0,5% contro la media nazionale del 5,8%), ha sostenuto una forte diversificazione dell’attività economica metropolitana, spingendo l’acceleratore su tecnologia, commercio, turismo.

Un esempio sono i 25 milioni di dollari puntati dalla municipalità in un centro tecnologico di Brooklyn che hanno attratto 775 milioni di investimenti privati. Lo scorso anno, ha detto orgogliosamente Bloomberg, l’ufficio del lavoro creato e rafforzato per incrociare domanda e offerta ha “piazzato” 31mila occupati. E ora il colpo grosso del campus, in una città che vanta già altri e ben noti primati accademici e una popolazione universitaria di 600mila studenti.

Gli strateghi della Grande Mela, consapevoli del fatto che l’Information Technology è tuttora l’industria americana che offre i maggiori livelli di dinamismo e creatività, vogliono fare della città la culla delle start up, una casa dell’innovazione, perché in fondo “la nostra città è stata in se stessa una start up quando ancora le start up non esistevano ancora” ha detto il sindaco. C’è anche l’idea di una sfida competitiva con la California, la patria dell’innovazione. Mentre qui da noi i duelli sembrano al ribasso: Roma sfida Venezia con un inutile festival del cinema.

Come ha fatto il sindaco Bloomberg a varare e amministrare il proprio “decreto sviluppo”? Ha guardato al passato, a come New York è cresciuta; ha condotto un’indagine su 325 manager e leader universitari per individuare una visione del futuro cittadino; ha puntato sull’innovazione e sui giovani (anche dall’estero: ci saranno in palio anche le green card). Soprattutto occorre dire che i progetti sono seri, trasparenti e concreti. Gli americani non si lasciano abbindolare dagli “effetti annuncio”.

Insomma, quella di New York non è una ricetta utilizzabile in qualunque cucina, ma Alemanno o Pisapia (o i governatori o i ministri) hanno a disposizione gli stessi ingredienti. Se solo volessero…

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