Propongo un accostamento che spero non appaia troppo ardito o addirittura irriverente. Lo spunto mi è venuto dalla concomitanza di due anniversari di nascita. Teresa d’Avila, santa, dottore della Chiesa, riformatrice del Carmelo e grande mistica, è nata cinquecento anni fa. Alberto Burri, pittore solitario e innovativo di cui si scopre sempre più la grandezza tanto che New York gli dedicherà una grande mostra in ottobre, è nato cent’anni fa.
Per conoscere la vita e la spiritualità della prima si possono leggere informate biografie o, meglio, direttamente qualcuna delle sua numerose opere. Quanto a Burri basta fare – potrebbe essere un’idea per qualcuno dei prossimi weekend di primavera – un salto nella natia Città di Castello dove, a Palazzo Albizzini e negli ex Seccatoi del Tabacco, il pittore stesso ha raccolto e disposto parte essenziale della sua produzione artistica.
Perché accosto queste due persone tanto lontane nel tempo, nel tipo di vita, negli interessi? Guardando i materiali poveri rivoluzionariamente usati da Burri per i suoi quadri, ci si accorge che essi sono ordinati in modo tale da «condurci alla scoperta della bellezza dove non ce la saremmo mai aspettata» (Marco Di Capua e Lea Mattarella). Ci si accorge però anche che i sacchi, i legni bruciacchiati, le lamiere, le plastiche trattate con la fiamma sono disposti in modo tale da lasciar quasi sempre intravvedere un’apertura, un varco. Nei celebri Sacchi questo spazio a volte è colorato di rosso sangue ed è impossibile non pensare ad una ferita ancora non rimarginata.
E la ferita di santa Teresa? È l’immagine che lei stessa usa per indicare il momento dell’estasi, il momento dell’unione con lo Sposo divino: «Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio» (Autobiografia). La chiesa romana di Santa Maria della Vittoria ospita la splendida statua di Gian Lorenzo Bernini che rappresenta esattamente l’istante in cui un angelo infigge nel cuore della santa una freccia acuminata, fino «a farla morire, ma d’amore» (Giulio Carlo Argan).
Una ferita, dunque, è necessaria perché dall’accumulo di materiali consumati e rotti, bruciati e contorti scatti la scintilla della bellezza. Trovare l’armonia nascosta non è un processo indolore, bensì una lotta sanguinosa. Questo, tra l’altro, ci dice Burri.
Una ferita è necessaria perché il rapporto affettivo – dal più facilmente naturale a quello più impegnativamente spirituale – possa purificarsi in amore e non rimanere possesso ripiegato su di sé. Questo, tra l’altro, ci dice santa Teresa.
Tale doppio e convergente insegnamento ci fa un po’ paura. Anche perché da molto tempo tentano di convincerci che ogni ferita di sacrificio è contraria all’umano e che basta essere mediamente furbi per farcela senza. Però sappiamo bene che non c’è parto senza dolore, non c’è resurrezione senza la ferita della croce.