Il nemico di tutti gli italiani

La situazione economica del nostro Paese continua a peggiorare. E per di più c’è un clima di generale scoraggiamento. Ma da dove passa la vera via d'uscita? ROBI RONZA

Malgrado le cortine di fumo emesse senza risparmio dal grosso dei giornali e dei telegiornali – ormai, per così dire, governativi per natura – anche di recente è giunta notizia di dati che confermano quanto peraltro ognuno di noi, anche in mezzo alle vacanze, avverte nella sua vita di ogni giorno: la situazione economica del nostro Paese continua a peggiorare. E per di più c’è un clima di generale scoraggiamento, forse  ancor più preoccupante della pur difficile situazione di fatto.



Occorre riprendere a sperare, e quindi a intraprendere. E questo è un problema che da sola la politica non può né affrontare né risolvere. Come ha acutamente affermato Papa Francesco, quella in cui siamo non è una crisi economica bensì innanzitutto una crisi dell’uomo. Stiamo pagando il conto di oltre due secoli di filosofie e di esperienze politiche volte alla distruzione del proprium positivo dell’uomo. Il salvataggio da questa catastrofe antropologica richiede energie, idee e virtù che non possiamo realisticamente ricuperare con le nostre sole forze. Più si va vicino a questioni-chiave, più ci se ne rende conto. Abbiamo il dovere di fare tutto ciò che sappiamo e che possiamo fare, ma da soli non bastiamo; per venirne fuori dobbiamo chiedere un aiuto ci viene da più in là e da più in alto. In questo senso la grande festa mariana che oggi si celebra è un’occasione da non perdere.



Tutto ciò fermo restando, e cercando di restare sempre ben saldi nell’orizzonte che abbiamo appena detto, nei limiti delle nostre capacità sia di visione che di azione siamo poi chiamati a fare ciascuno la nostra parte. In tale spirito dico ciò che vedo e che mi sembra urgente con riguardo alla crisi in cui siamo immersi. A mio avviso è decisivo liberare il nostro Paese dalla cappa di un coacervo di burocrazie parassitarie istituzionali e para-istituzionali, per lo più trincerate a Roma, che succhiano all’economia produttiva una quantità enorme e non più sostenibile di risorse per alimentare rendite politiche e para-politiche di ogni genere.



Come già altre volte ho scritto, tali rendite finanziano privilegi non solo di élite ma anche di massa. Ribadisco che i primi sono più odiosi ma i secondi sono più nefasti: il ministro che usa l’aereo di Stato per andare a vedere il Gran Premio di  Monza suscita una facile indignazione, ma causa all’erario molto meno danno di milioni di persone (sacrosanti operai metalmeccanici, intoccabili insegnanti delle scuole statali e altre categorie privilegiate) che sono andati e vanno in pensione molto prima di aver raggiunto i 65 anni che vennero tra l’altro fissati in un’epoca in cui la vita media era attorno ai 54 anni. 

Tutti i tentativi di ridimensionare a partire da Roma questo vorace mostro burocratico sono sin qui falliti. Non ci è riuscito Berlusconi, che ha promesso la “rivoluzione liberale” senza mai riuscire a farla, condizionato come era dal desiderio impossibile di raccogliere il consenso sia dell’Italia che produce che di quella che vive alle sue spalle. Non hanno potuto riuscirci i governi di centrosinistra semplicemente perché – essendo la principale rappresentanza politica della gigantesca burocrazia del “welfare state” – non sono strutturalmente in grado di pensare qualcosa di efficace al riguardo. E’ venuto poi il momento dei… governi di salute pubblica, ma nemmeno questi hanno dimostrato di funzionare. Il tentativo fatto con il governo “tecnico” di Mario Monti è stato fallimentare e gli esiti del governo di “larghe intese” di Enrico Letta risultano per il momento (se fosse possibile) ancora più sconfortanti. Magari accadrà poi il miracolo. Non potrà che essere un miracolo nel vero senso della parola, ma per ora non è accaduto. 

Fatto sta che il blocco della burocrazia centrale parassitaria si è sempre dimostrato più forte di chi è andato al governo a Roma anche con i migliori propositi. In tale quadro resta ancora una grossa carta che la Costituzione consente di giocare: una grossa iniziativa di riforma delle istituzioni e dell’amministrazione statale promossa e sostenuta da una stabile alleanza di Regioni dell’Italia che produce; l’Italia che, malgrado tutto, ha subìto molto meno del resto del Paese i colpi della crisi. In questo consiste il nocciolo del progetto della macro-regione del Nord, di cui Stefano Bruno Galli ha parlato in questi giorni sul Corriere della Sera. La replica del capo dell’opposizione di centro-sinistra in Regione Lombardia, Umberto Ambrosoli, che l’ha definita una “sparata estiva” buona solo per nascondere un “vuoto progettuale”, è interessante solo quale conferma di quanto si diceva, che cioè le attuali forze italiane di centro-sinistra, tarde eredi della socialdemocrazia europea del secolo scorso, sono una realtà ormai anacronistica che non ha i mezzi per affrontare i problemi del presente.

Rievocando un nome che rimanda all’omonimo movimento federalista sorto in Lombardia nel primo dopoguerra in ambiente cattolico, ma poi ben presto soffocato dalla Democrazia cristiana di De Gasperi, Galli chiama Cantone Prealpino la realtà politica che si potrebbe costruire a Costituzione invariata. E’ un progetto che merita la più grande attenzione. Mentre lo si realizza, una stabile e ben determinata alleanza di Regioni, numerose quanto basta per presentare al Parlamento proposte di legge, petizioni e referendum abrogativi – se sostenuta da una forte volontà politica e da un’adeguata mobilitazione popolare, e se appoggiata alle Camere da un avamposto non malleabile di parlamentari alleati – potrebbe imporre al Parlamento un’agenda di riforme di struttura.

La prima di queste riforme, e in effetti la premessa necessaria di tutte le altre, dovrebbe essere l’attuazione dell’articolo della Costituzione che riconosce alle Regioni l’autonomia fiscale. La piena responsabilità in materia fiscale, quindi la riserva dei campi di imposizione e il diritto di concorrenza fiscale tra territori (ovvero il diritto a chi amministra meglio di far pagare meno imposte ai propri amministrati) sarebbe il motore finalmente irrefrenabile di una razionalizzazione, e quindi di una riduzione della spesa dello Stato e degli altri enti di governo di tutto il resto del Paese.

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