Dunque aveva ragione Giovanni Paolo II, quando nel messaggio di Natale del 1990 diceva, anzi gridava di attendersi trepidante “il dileguarsi della minaccia delle armi” nella regione del Golfo. E continuava: “Si persuadano i responsabili che la guerra è un’avventura senza ritorno! Con la ragione, con la pazienza e con il dialogo, e nel rispetto dei diritti inalienabili dei popoli e delle genti, è possibile individuare e percorrere le strade dell’intesa e della pace”.
Tutto ciò che è accaduto, fino ai fatti di questi giorni, dopo che quel suo appello restò senza seguito, non ha mai smesso di confermarlo. Lungi dall’essere utopico e astratto, il suo appello era anzi ben più realistico e ben più positivamente politico della pretesa del presidente americano George Bush senior di risolvere il problema con la guerra che avrebbe scatenato contro l’Iraq di lì a qualche settimana. E più tardi della pretesa di George Bush junior di fare anche ben peggio del padre il quale almeno, quando si accorse di non aver pronta un’alternativa a Saddam Hussein, ebbe il coraggio di fermarsi.
La crisi scoppiata in questi giorni non si spiega da sé, né tanto meno si può pensare di risolverla con interventi militari di pronto soccorso. Buttare un po’ di acqua sul fuoco è un’ovvia urgente necessità. Però poi non cambia nulla se non si mettono le mani nel groviglio che è stato creato per dipanarlo con tutta la fermezza necessaria, ma anche facendo finalmente tesoro della ricetta che Giovanni Paolo II saggiamente proponeva ormai quasi venticinque anni or sono.
In primo luogo occorre tenere per fermo che la pace va negoziata con tutte le parti in causa, ovvero con tutti coloro che stanno in campo, e non solo con quelli che ci piacciono di più. Quella di escludere a priori qualcuno dal negoziato è una storica pretesa della diplomazia americana che non ha mai smesso di provocare guai. Pretendere di lasciare qualche parte in causa fuori dal negoziato equivale infatti a concepire la diplomazia come la continuazione della guerra con altri mezzi; e quindi a precludersi la possibilità di qualsiasi accordo. Nel caso della crisi irachena al punto cui è ora arrivata, piaccia o non piaccia l’Iran è un interlocutore ineludibile. Si può capire che gli Stati Uniti preferirebbero che non fosse così, ma allora avrebbero dovuto anche impegnarsi perché nell’Iraq dopo Saddam Hussein la maggioranza sciita non prevaricasse sulla minoranza sunnita, malgrado il suo desiderio di vendicarsi dei torti subiti quando il sunnita Saddam Hussein era al potere.
Adesso siamo di fronte a un’insurrezione diffusa del Nord Iraq sunnita, cui l’incursione degli integralisti dell’Isis provenienti dalla Siria ha fatto da detonatore (questi infatti da soli non avrebbero né la forza né la capacità logistica sufficiente per penetrare così ampiamente e profondamente in Iraq). Di fronte a questi sviluppi la forza delle cose spinge gli sciiti dell’Iraq del Sud verso l’Iran, il grande vicino sciita. Essendo ormai questa la situazione, Obama ha ciononostante rifiutato la mano tesa dell’Iran. Ha fatto cioè qualcosa che in effetti a questo punto non si può permettere, tanto più considerando il peso che l’Iran si è guadagnato nella Siria dissestata dall’imprudente assalto di Washington al regime di Assad.
Stando così le cose, diventa sempre più urgente qualcosa che invece gli Usa non vogliono assolutamente consentire né tanto meno promuovere: un’azione diplomatica ampiamente concordata che conduca a una conferenza generale sul Vicino e Medio Oriente, una specie di “congresso di Vienna”, in cui affrontare il problema degli squilibri in atto nella regione presa nel suo insieme, e avviarli a soluzione in modo coordinato. “Con la ragione, con la pazienza e con il dialogo, e nel rispetto dei diritti inalienabili dei popoli e delle genti”: si tratta insomma di avviare il superamento dello squilibrio complessivo che iniziò nella regione quando, al termine della prima guerra mondiale, Gran Bretagna e Francia si spartirono le province arabe dello scomparso Impero Ottomano. Uno squilibrio che gli Stati Uniti, subentrati a Gran Bretagna e Francia al termine della seconda guerra mondiale, non hanno poi fatto altro che aumentare. E’ un’ardua impresa? Certamente, ma se si vuole davvero la pace non si può fare altro.