In queste settimane, nella girandola di annunci sulle misure per riequilibrare i conti pubblici, hanno fatto capolino anche le ipotesi di applicare una patrimoniale o di introdurre un condono fiscale. Poi non se n’è fatto nulla, ma non escludo che si possa tornare presto a parlarne. Non intendo però ora entrare nel merito di proposte che possono essere più o meno condivisibili. Vorrei invece porre l’attenzione su un aspetto che sta a monte e che dovrebbe essere garanzia di un corretto rapporto fra cittadino e Stato, fra contribuente e fisco: la certezza del diritto.
Purtroppo, infatti, più di una volta ci si è trovati in campo, per usare una metafora calcistica, a disputare una partita truccata dal cambiamento delle regole a gioco iniziato. Potrà sembrare paradossale, ma in occasione di precedenti condoni sono stati molti coloro che, pur avendo già pagato il dovuto, vi hanno aderito, sborsando altri soldi, solo per mettersi al riparo dalle sortite dell’amministrazione finanziaria nell’impossibilità di avere certezze sulla regolarità della propria posizione. Del resto, basti pensare che in più di un caso abbiamo assistito anche alla modifica della base imponibile con effetto retroattivo. E solo qualche settimana fa è stata avanzata la proposta di un prelievo extra sui capitali rientrati con lo scudo fiscale. Non ha avuto corso, ma avrebbe rappresentato l’ennesima violazione del principio pacta sunt servanda che dovrebbe venire prima di ogni altra considerazione.
Nel Duemila, per la prima volta in Italia, si è arrivati alla formulazione dello Statuto del contribuente, ma purtroppo non essendo stato elevato a dettame costituzionale si è lasciato che in questi anni si arrivasse spesso a fare strame di quanto da esso sancito. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che se un governo deve recuperare risorse a tutti i costi per alimentare la spesa pubblica non c’è legge che tenga. Ricordo solo il recentissimo provvedimento liberticida sull’immediata esecutività degli accertamenti fiscali. Basta un avviso dell’Agenzia delle Entrate per essere considerati in mora. Non c’è più bisogno di istruire una cartella esattoriale che, ricorsi compresi, portava al saldo dell’eventuale debito entro 15-18 mesi. Il problema è che in quattro casi su dieci i ricorsi davano ragione al contribuente.
Sono esempi che descrivono un rapporto falsato fra contribuente e Stato. Quest’ultimo pretende il rispetto delle regole, ma poi è lui il primo a contravvenire ad esse. Ciò accade anche quando si impongono normative velleitarie il cui costo di applicazione, con tutta la burocrazia che comportano, è sproporzionato rispetto all’efficacia sui fenomeni che si vogliono porre sotto controllo. Tutto questo si inserisce in una giungla di leggi e regolamenti che penalizzano investimenti e produzione e nei quali è spesso così difficile orientarsi al punto da richiedere per la loro interpretazione ormai il supporto di costose consulenze. Il paradosso è che, di questo passo, avremo sempre più controllori e una diminuzione dei potenziali controllati stremati dal peso di adempimenti e burocrazia. Il problema non riguarda solo il fisco, ma può essere esteso a tanti altri ambiti.
Credo perciò che vada anzitutto ristabilita quella certezza e chiarezza normativa, indispensabile per ricreare un clima positivo nei rapporti di cittadini e imprese con l’amministrazione finanziaria. Non è quindi in discussione la necessità delle regole e della conseguente sanzione di chi le infrange. Il problema è che oggi a un eccesso di tassazione si accompagna anche una modalità vessatoria di riscossione. E l’esperienza dovrebbe pur insegnare qualcosa. È provato che ciò spinge a una maggiore evasione e a una riduzione del gettito, mentre diversamente si avrebbe un accrescimento di questo perché (quasi) tutti farebbero fronte ai propri doveri fiscali. Solo così sarà infatti possibile persuadere il cittadino che se ognuno paga il giusto pagheremo meno tutti.