La notizia, in Italia, è passata quasi inosservata, al massimo delle brevi noticine con qualche titolo un po’ sbrigativo ed esagerato del tipo «I Russi non sanno perdere». Niente di tragico, per carità, semplicemente la Russia ha perso la finale dei campionati del mondo di hockey su ghiaccio: sconfitta dal Canada 6 a 1; una bella batosta, come si dice, ma niente di tragico e soprattutto niente di discutibile durante la partita. Il pasticcio è successo dopo, quando si è arrivati alla cerimonia conclusiva: la squadra russa si è presa le sue medaglie d’argento e (salvo tre o quattro suoi hockeisti che sono rimasti sul campo sino alla fine) se n’è andata senza aspettare la premiazione dei vincitori e, ciò che è più spiacevole, senza ascoltare il loro inno. A quanto pare una cosa mai vista prima a questo livello e la federazione internazionale ha già fatto sapere che prenderà gli opportuni provvedimenti.
Non varrebbe la pena parlare di una cosa tanto meschina se non fosse che questo comportamento ha suscitato in Russia delle critiche di tutt’altro livello e su ben altro piano. Il problema, è stato osservato, non dipende tanto dal saper perdere o meno quanto da una cultura della vittoria ipertrofica: «la sconfitta è semplicemente impensabile. Abbiamo vinto, vinciamo e vinceremo». E questo si estende in ogni settore della vita, dove la vittoria diventa una ragion d’essere. Così, è stato sottolineato da un giornalista di “Echo Moskvy”, «la squadra per questo campionato è stata preparata in un’atmosfera di isterismo patriottico. I responsabili l’hanno quasi mandata in guerra, presentando i futuri incontri come la battaglia del nostro bene contro il male occidentale». Come stupirsi se poi si hanno certi comportamenti? E come non temere che si possano punire i giocatori rimasti in campo perché «non hanno calpestato la bandiera avversaria»? La questione, dunque, non è che non si sa perdere, ma che non si sa vincere, e non si sa perché, come e con chi si vince.
Non sa più con chi vincere questa Russia che festeggia la fine della seconda guerra mondiale in un’orgogliosa solitudine che la costringe a ricordare, accanto agli aiuti degli alleati occidentali, gli enormi «aiuti della Mongolia», quasi a relativizzare il contributo dei primi e come se il parlarne troppo oscurasse o diminuisse la gloria dei suoi ventisette milioni di morti.
Non sa più come vincere questa Russia che, mentre restaura il mito di Stalin vincitore della guerra e dice di difendere i diritti dei russofoni in Crimea, in quella stessa Crimea vieta una manifestazione per commemorare i duecentomila Tatari che tra il 18 e il 20 maggio del 1944, su ordine di Stalin, vennero deportati con l’accusa di essere stati collaborazionisti dei tedeschi; strana misura con i nazisti che se ne erano appena andati portando con sé i veri collaborazionisti, che qualche settimana prima erano stati valutati attorno ai cinquemila, mentre ad essere deportate furono intere famiglie, con vecchi e bambini, e un tasso di mortalità superiore al 25% (oltre il 40 secondo i dissidenti degli anni Settanta).
Non sa più perché vincere questa Russia che, commemorando la vittoria, accetta di portare in sfilata, nella marcia del «Reggimento immortale», la foto di Berija, cioè la foto del più classico e meno riabilitabile degli aguzzini, mai andato al fronte, in mezzo alle foto di chi invece si sacrificò veramente.
Culto di una discutibile superiorità, orgoglioso isolamento, mito di una superpotenza che non sembra avere nessun limite né riconoscere alcun criterio di verità: eppure sbaglierebbe l’Occidente se si fermasse solo a questi elementi. Dietro a tutto questo, infatti, non ci sono soltanto le critiche cui abbiamo accennato, non c’è soltanto la facile ironia di chi si è preso gioco del «latte di giumenta mongolo» che non poteva certo competere con il «latte in polvere» del Lend-Lease americano (la legge Affitti e prestiti con la quale gli Stati Uniti fornirono un grande aiuto economico allo sforzo bellico sovietico). Oltre a tutto ciò c’è anche una nuova o rinnovata coscienza del valore della memoria e della verità. Mentre infuriavano le polemiche sull’uso politico del «Reggimento immortale» e sulla vicenda dell’hockey, proprio uno dei protagonisti di queste polemiche, il biblista Andrej Desnickij ha lanciato un’idea che ha avuto subito, in maniera del tutto inaspettata, migliaia di adesioni: perché non affiancare al «Reggimento immortale» una «Baracca immortale», in memoria di tutte le vittime delle repressioni, non meno degne di memoria e spesso ancor più dimenticate delle vittime della guerra?
Al centro del dibattito nell’opinione pubblica libera acquista sempre maggior peso il tema di una memoria piena e condivisa: non semplicemente per fare giustizia ma per far terminare una guerra civile che non si è mai conclusa e non si potrà mai concludere finché alle vittime non sarà restituito il loro posto nella realtà. Non solo non è un gesto di sfida al potere ma è una mano tesa, un gesto di riconciliazione.