Sulla nostra felicità

Seguire o non seguire il bon ton nell'ascolto pubblico della musica? Potrebbe sembrare una questione oziosa, invece ha molto da dire sulla nostra felicità. PIGI COLOGNESI

Il Centre de Musique de Chambre di Parigi in un suo recente libretto di sala ha scritto: «Applaudite quando volete!». Si rompe così l’usanza di aspettare silenziosi la fine dell’esecuzione di un brano prima di esprimere il proprio apprezzamento. Cosa non sempre facile; per esempio, le sinfonie classiche hanno quattro movimenti con un finale trascinante dopo il quale si può applaudire, ma c’è lo spiritoso che la fa di cinque movimenti o che finisce in un adagio e tu resti lì fermo come un soprammobile. Per evitare figuracce la prudenza suggerisce di applaudire solo quando il direttore o il solista danno evidenti segni di aver finito il loro lavoro. Ovviamente c’è l’eccezione della lirica, dove i melomani hanno sempre aspettato al varco gli interpreti dell’aria famosa per subissarli di gridi d’esultanza o boati di riprovazione (rarissima una discreta via mediana).

Per alcuni l’innovazione parigina è molto pericolosa perché rischia di deconcentrare gli interpreti, di far perdere il filo di un discorso musicale più ampio del singolo pezzo che trascina all’entusiasmo, di banalizzare l’ascolto. Per altri, invece, la concessione di applaudire tra un movimento e l’altro (almeno questa limitazione i parigini l’hanno lasciata) toglie il gesso di un’abitudine che risale all’ultimo Ottocento e ridà all’ascolto collettivo della musica quel senso di partecipazione diretta e coinvolta ben diversa dall’algida degustazione dello specialista (spesso finto) che si vede in tante sale da concerto. Un bon ton che, tra l’altro, inibisce l’espressione delle giuste critiche; una volta al conservatorio di Milano fu eseguito il terzo concerto di Rachmaninov in modo vergognoso: solista e orchestra non erano a tempo e il primo era completamente soverchiato dalla seconda. Alla fine: applausi di circostanza. Noi delle file un po’ indietro ci guardammo smarriti; forse avremmo dovuto alzarci e fischiare nel bel mezzo dell’esecuzione, ma il galateo delle sale d’ascolto non lo permetteva.

Però io non sono tanto convinto che la «libertà di applauso» sia automaticamente un beneficio per l’ascolto della musica. Potrebbe avvantaggiarsene l’approccio che privilegia l’emozione, che stimola la reazione sentimentale, che cerca il brivido caldo della passione o quello freddo della paura. Tutte cose nobili: anche la musica è, per un suo verso, spettacolo e quindi va benissimo scoppiare a ridere per un passaggio delle Nozze di Figaro e immagonirsi per l’adagio di Barber, ballonzolare sulla sedia per un crescendo rossiniano e tutta la vasta gamma di possibili reazioni emotive che coinvolgono addirittura il nostro corpo. Tutto questo dà piacere e dar piacere è tra gli scopi della musica.

Ma non credo che si possa bypassare il motto senechiano che campeggia dal 1781 nella sala da concerti di Lipsia (dove aveva per anni lavorato il sommo Bach): «Res severa est verum gaudium»; la miglior traduzione che ho trovato suona così: «Il piacere autentico è una cosa seria». E quando si ascolta una musica grande non si prova autentico piacere ad irrigidirsi nella corazza delle fredde competenze tecniche di cui sono zeppi i libretti di sala, ma nemmeno nel lasciarsi andare all’istinto titillato dai suoni. Il piacere autentico passa attraverso la via stretta di almeno un attimo di vero ascolto nel quale, quasi dimentichi di sé, si è riempiti dall’inaspettata verità che la musica comunica; un attimo in cui non si ha ancora il problema se applaudire o no.

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