L’individualismo, inteso come il primato del proprio io senza gli altri, non costituisce affatto un atteggiamento marginale nella nostra società. Sarebbe comodo ghettizzarlo in determinate fasce sociali, legarlo alle devianze di ogni tipo, stigmatizzarlo nei deliri estremi delle patologie narcisiste. Si tratta invece di un vero e proprio modello dominante, di un imperativo culturale nel quale si è tentati di accedere non appena, con l’indipendenza professionale e l’agiatezza economica (anche quando sono più apparenti che reali) si gode della percezione di poter bastare a sé stessi e di non avere bisogno degli altri se non come utili e provvisori strumenti per il nostro benessere.
Se infatti proviamo a non confondere l’individualismo con le sue manifestazioni parossistiche, che sono l’egoismo e l’egocentrismo, possiamo renderci conto della sua diffusione e soprattutto della sua centralità. Si può infatti essere individualisti e, contemporaneamente, apparire accoglienti, altruisti, perfino caritatevoli. Si può essere individualisti e atteggiarsi a credenti praticanti. Magari essere addirittura additati ad esempio di virtù cristiane tutte le volte che si confonde l’apparenza con la sostanza, si privilegia la forma a spese del contenuto.
L’individualismo è un vizio sotterraneo e perfettamente occultabile nella società contemporanea in quanto ne riassume lo scenario di fondo, si confonde con lo sfondo culturale dominante, è trasparente al sistema. Ciò che lo caratterizza non consiste affatto nel non pensare agli altri, ma il ritenere di poter bastare a sé stessi; l’essere intimamente convinti che gli altri, per quanto virtuosi, una volta non soggiogabili alla nostra volontà né esserci strumentalmente utili — una volta cioè che sono realmente altro da noi — non ci siano affatto necessari e tutto quello che si è costruito lo si debba solo alle proprie capacità ed alle proprie qualità.
Nella prospettiva individualista gli altri, quando non sono strumentalizzabili né a disposizione della nostra volontà, costituiscono infatti una vera e propria trappola. Questi appaiono inevitabilmente come portatori di legami, impegni, vincoli che finiscono, prima o poi, con il coartare la nostra libertà, imponendoci limiti e estendendo pericolosamente il fronte delle responsabilità che dobbiamo sottoscrivere. Da qui la fuga dall’altro e la sostituzione dei vincoli di amicizia con una rete di legami light costantemente rivedibili, pronti ad essere tralasciati non appena diminuisce il livello di gratificazione, abbandonati non appena mostrano dei vincoli e delle esigenze di relazione in qualche modo impegnative.
Il soggetto individualista non si pensa come in costante relazione, né si vede definito da una rete di legami significativi nei quali cresce e grazie ai quali riesce ad essere sé stesso. Questa visione del mondo e delle cose gli è sostanzialmente ignota. Questi lavora così all’edificazione della propria vita privata, con le proprie sicurezze i propri angoli di benessere personale, i propri consumi personalizzati, il proprio tempo libero, costantemente al riparo da qualsiasi legame che conti e, al tempo stesso, non sia strumentalizzabile. Costantemente in difesa da qualsiasi incontro con l’altro reale, quello che ci aiuta a capire chi siamo realmente.
È in questo scenario che matura la deriva dell’umano sotto il peso di un’autoreferenzialità potenzialmente illimitata. Per l’individualista autoreferenziale l’altro non disponibile per i nostri obiettivi è semplicemente inutile. Nei casi in cui questo stesso individualismo degenera in una patologia, l’altro che si ribella ad un tale uso strumentale, che vuole andarsene e lasciarci, diventa reo di un’offesa indicibile dinanzi alla quale ogni reazione appare legittima, anche quella che ci autorizza alla furia omicida.
Un tale individualismo, anche quando non degenera in forme patologiche, non nasce da sé. L’idea di non avere bisogno di legami significativi con gli altri nasce da un principio radicalmente errato, da una percezione distorta e fuorviante. Si tratta di quella di non avere padri, di percepirsi come figli della pura casualità quando non addirittura degli errori giovanili dei propri genitori. Ritenersi figli del caso costituisce l’inizio del sentiero scosceso che ci porterà a non dover ringraziare che noi stessi (e il fato) per ogni nostro futuro successo. Ma soprattutto che ci costituirà come soggetti senza eredità, senza avere nessun gesto di bontà da ricordare né riconoscere, quindi senza nessuno da ringraziare.
L’individualismo contemporaneo, inteso come il primato dell’io senza gli altri sembra allora avere nell’assenza sostanziale del legame con i padri il proprio nucleo costitutivo, la propria base assente, la casa che non c’è mai realmente stata, il “melograno” della nota canzone di Claudio Chieffo che non si è mai riusciti a vedere né a riconoscere.