Ha suscitato varie polemiche, in Russia, il discorso pronunciato dal Patriarca Kirill domenica scorsa, per la “Festa del trionfo dell’ortodossia” (nessun trionfalismo, in verità, in questa festa che si celebra all’inizio della Quaresima, ma la memoria della vittoria riportata nell’843 dalla retta dottrina della Chiesa – ancora indivisa – sugli iconoclasti). L’espressione incriminata è omolatria, che il Patriarca ha usato per definire l'”eresia” di oggi, cioè la convinzione che “il fattore dominante, determinante la vita dell’uomo e della società è l’uomo stesso”, “il criterio universale della verità può essere solo l’uomo con i suoi diritti, e la vita della società deve formarsi sulla base dell’autorità indiscutibile della persona umana”.
Questa nuova concezione, che nel XX secolo ha portato i frutti amari della rivoluzione e di uno spietato regime antireligioso e antiumano, oggi vede una diffusione planetaria – ha affermato ancora Kirill – ed è stata assunta anche da molti cristiani, “che pongono i diritti umani al di sopra della parola di Dio. Per questo – ha concluso – possiamo parlare di un’eresia globale, l’omolatria, un nuovo tipo di idolatria che estromette Dio dalla vita umana… Ed è proprio per superare quest’eresia fondamentale del mondo contemporaneo, che la Chiesa deve impegnare oggi tutta l’energia della propria parola e pensiero”.
La diagnosi del Patriarca era già stata formulata, per certi versi, da Papa Paolo VI nella sua Allocuzione all’ultima sessione pubblica del Concilio Vaticano II, nel dicembre 1965, in cui aveva descritto l’uomo contemporaneo come un “uomo tutto occupato di sé, un uomo che non soltanto si fa centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà… L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio”.
Ma qual è stata la risposta della Chiesa? Proseguiva Paolo VI: “Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo”.
L’alternativa, in qualche modo posta dalle parole di Kirill, fra diritti umani e parola di Dio, va a toccare nel mondo della cultura russa – religiosa e non – una corda particolarmente sensibile, dolente, perché è come se l’uomo di oggi non attendesse dalla Chiesa altro che condanne e rifiuti; la polemica cui assistiamo si spiega certamente anche così, oltre che con il retaggio del mondo sovietico e la condivisione delle posizioni dei nuovi liberalismi occidentali.
Perché in realtà umanesimo e cristianesimo non sono in alternativa: la “simpatia” di cui parla Paolo VI, l'”eccedenza” della misericordia divina di cui parla Papa Francesco, sovrabbondante fino ad apparire “ingiusta” agli occhi umani, è la caratteristica prima dell’umanesimo cristiano che affonda le radici nel fatto inaudito della Croce e Resurrezione. È la “fede di Dio nell’uomo”, di cui parlava il metropolita Antonij, o lo “stare sulla porta” di padre Aleksandr Men’, perché ogni uomo potesse “incontrare Colui che è la Porta della vita”.
Ma anche nel recente discorso del Patriarca mi sembra di poter scorgere un accento inedito, un nuovo invito alla sua Chiesa ad aprirsi con “simpatia” alla realtà: “Abbiamo davanti a noi due vie. Una molto semplice: dire alla gente – se non siete d’accordo con l’annuncio del Vangelo, siete eretici o senzadio, e non c’è nessuna possibilità di dialogo con voi, perché entrando in rapporto con voi potremmo perdere la nostra verità. Sappiamo bene che anche tra noi ci sono persone che parlano così. Ma c’è anche un altro approccio: quando ti vengono fatte delle domande, magari anche provocatorie, cerca di capire che cosa muove il tuo interlocutore – il desiderio di combattere oppure, nonostante tutto, di scavare fino a giungere alla verità. Invece di alzare le spalle e dire: ‘Vattene, eretico, senzadio’, rispondiamo alle domande dell’interlocutore con umiltà, confidando in Dio, nella speranza che le nostre parole possano raggiungere lo scopo. Questo significa entrare in dialogo con la gente, non declamare la propria dottrina, ma rispondere alle domande che ci vengono fatte… testimoniare la nostra esperienza, la nostra fede. Domande e risposte: questo è il dialogo”.
Non sarà facile riannodare questo dialogo, ritrovare questa simpatia che si è spezzata oltre un secolo fa, quando a nome della Chiesa fu risposto a Lev Tolstoj, che chiedeva di abolire la pena capitale appellandosi all’identità cristiana dell’impero, che “il vostro Cristo non è il nostro Cristo: il vostro è un poveraccio, un rammollito, che perdona, il nostro invece viene con forza e potenza”.
Dall’incontro di Cuba è passato poco più di un mese, si sono aperti processi che lavorano in profondità, nelle coscienze e nei cuori della gente. Impossibile misurarli, anche se ne avvertiamo la presenza. La forza disarmata della fede dovrà farsi avanti tra montagne di difese e resistenze. Ma forse in questi processi rientra anche il nuovo appello del Patriarca a “uscire dal ghetto”, a muovere verso il mondo sulle orme degli apostoli, a non “tranquillizzarci e consolarci di essere nel giusto, di essere a posto, mentre tutt’intorno il mondo perisce”, ma a ricordare che “il Signore ci chiederà conto di non essere entrati in dialogo con il mondo, di non esserci battuti per ogni singola anima”.