Obama appare ancora prigioniero della sua prima campagna elettorale, quella del We can, quella che ne fece una promessa della “bella politica”. Allora era un uomo giovane e quell’esperienza e il desiderio di piacere a tutti sembra aver segnato il suo carattere. Solo questo può spiegare la sua decisione (o non decisione) sull’intervento in Siria. Sia l’annuncio dell’imminente bombardamento che la successiva decisione di sottoporre l’attacco all’approvazione del Congresso rispondono probabilmente a un bisogno di stima, che può avere tuttavia conseguenze nefaste.
L’attuale presidente degli Stati Uniti fu innalzato alla Casa Bianca a causa del rigetto della gestione Bush. Si presentava, infatti, come alternativa alla polarizzazione del Repubblicano, come l’uomo che avrebbe corretto i danni provocati dai neocon di Washington. Tuttavia, in questo secondo mandato è diventato evidente come Obama abbia messo in scena una reazione dialettica, piuttosto che un vero cambiamento. E le reazioni assomigliano molto all’originale.
La frattura nel Paese lasciata dalla presidenza delle destre ha finito per essere aumentata dalla polarizzazione progressista. La pressione esercitata dal presidente sulla Corte suprema perché desse via libera al matrimonio omosessuale ne è un esempio. Un altro è dato dalla trasformazione della riforma sanitaria in uno strumento per limitare la libertà di coscienza e la libertà religiosa, imponendo criteri radicali.
La politica di Bush in Medio Oriente è stata un disastro, soprattutto per la seconda guerra del Golfo, che non era giustificata, non ha perseguito una strategia di ricostruzione nazionale e ha peggiorato le cose. I consulenti insediatisi a Washington avevano una teologia politica poco realista, che non faceva tante differenze tra islam e jihadismo.
Obama portava con sé la speranza di un’aria nuova anche per il Medio Oriente, ma il suo insuccesso è evidente. Dietro le sue decisioni non c’è una “dottrina forte”: il suo predecessore ne aveva una cattiva, Obama non ne ha. La ritirata dall’Afghanistan andava accompagnata da una trattativa con i talebani, che però non c’è stata; l’uscita dall’Iraq ha lasciato il Paese in preda a una guerra civile tra sunniti e sciiti; i colloqui di pace in Terra Santa, promossi da Kerry, non vanno avanti perché Israele rifiuta di fermare i nuovi insediamenti in Cisgiordania.
E adesso la Siria. La guerra è incominciata più di due anni fa e ha provocato finora 100mila morti, 4 milioni di sfollati e due milioni di profughi. Solo dopo l’attacco con armi chimiche, che l’Onu deve ancora confermare, Obama ha deciso che bisogna intervenire. Se venisse confermata la morte di 1500 persone per l’attacco chimico sarebbe una tragedia, ma non si capisce perché si dovrebbe intervenire ora, visto che non si è intervenuti prima.
Fino a qualche giorno fa, Obama ha pensato che fosse l’occasione per fare la storia. Nel suo discorso nei giardini della Casa Bianca ha parlato dell’impegno morale degli Stati Uniti per la dignità umana. E’ però apparso chiaro in pochi giorni che non ha l’appoggio della comunità internazionale e della maggioranza dell’opinione pubblica. Da qui il passo indietro, anche se non sarà per lui facile ottenere l’autorizzazione del Congresso.
Ultimamente si sono levate molte voci a sostenere che l’attacco sarebbe controproducente, anche perché non è stato pensato nulla a medio termine, solo il lancio di qualche bomba. Obama appoggia il fronte ribelle, a maggioranza sunnita, per l’alleanza degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita? Gli Stati Uniti si mettono di traverso ad Assad per frenare la forza dello sciismo, alleato del regime siriano, e per bloccare l’Iran? La cosa più probabile è che la Casa Bianca non abbia nemmeno simili intenzioni, ma che si tratti, temo, solo di una questione di immagine.
Assad è un tiranno senza scrupoli, ma la vittoria del fronte ribelle potrebbe portare a qualcosa di peggio, dato che l’opposizione è infarcita di islamismo radicale. Questa domenica, in un articolo su ABC intitolato “Cristiani”, l’ebreo Jon Juaristi affermava che il dovere dell’Europa in questo conflitto, come in altri, è di proteggere la minoranza cristiana. La politica teocon di Bush, alimentata da un cristianesimo astratto, ha provocato conseguenze dannose per i cristiani di quei Paesi. La politica erratica di Obama può aggravare la situazione dei cristiani in Siria, una delle minoranze più colpite da quando è incominciata la guerra. I cristiani sono stati sequestrati e assassinati per il solo fatto di essere battezzati, in centinaia di migliaia hanno abbandonato il Paese.
Siria e Medio Oriente muoiono senza i cristiani, senza la testimonianza di una fede che si è espressa attraverso la carità, che promuove la laicità necessaria a quella regione. Forse Obama potrebbe restituire il Premio Nobel per la Pace, creare un Premio Bush ed essere il primo a ottenerlo.