“Aria”, “soffio”, “respiro”: a volte le ricorrenze delle parole rendono con un effetto plastico il senso di un messaggio. È quanto si percepisce leggendo il testo dell’omelia con cui ieri Papa Francesco ieri ha dato il “la” alla Quaresima, in occasione della messa del mercoledì delle ceneri nella Basilica di Santa Sabina. Un discorso pronunciato, per così dire, a porte e finestre spalancate.
Giornalisticamente parlando, si resta colpiti dall’accento che Bergoglio ha voluto mettere sull’esperienza della Quaresima. “Non è il tempo di stracciarsi le vesti davanti al male che ci circonda”, ha detto, “ma piuttosto di fare spazio nella nostra vita a tutto il bene che possiamo operare, spogliandoci di ciò che ci isola, ci chiude e ci paralizza”. Ieri mattina, in occasione dell’Udienza aveva anche sottolineato che la Quaresima è “il cammino in cui la speranza stessa si forma”. In un certo senso l’aspetto penitenziale è sopravanzato o sussunto da una prospettiva di liberazione (“La Quaresima è la strada dalla schiavitù alla libertà”).
Papa Francesco ha una sensibilità psicologica tutta particolare nel cogliere qual è il bisogno più acuto dell’uomo di questo tempo, cioè del suo tempo. Ad esempio ha capito che scetticismo, sfiducia, rancore assediano lo sguardo delle persone (questo è “lo stracciarsi le vesti”), e che tutto questo si trasforma in “un’asfissia” (altra metafora molto omogenea che lui ha usato). Per questo c’è immenso bisogno di un qualcosa, anzi di un Qualcuno che faccia respirare. Ecco perché ieri ha tanto insistito sull’immagine del “soffio di Dio”, che non è arrivato sulle nostre vite soltanto nel momento in cui ciascuno ha iniziato ad essere. Lui invece, ha detto, “vuole continuare a darci quel soffio di vita”.
Non è un’idealizzazione quella di Francesco; non è una bella immagine, suggestiva e “motivante”. Il soffio, fa capire, è un qualcosa di assolutamente reale, concreto. È una generosità di sguardo che ci conquista, che cambia il modo di relazionarci con il nostro tempo. È un’energia che ci fa sentire accolti e che ci porta d’istinto ad accogliere, a “fare spazio nella nostra vita a tutto il bene che possiamo operare”. Il soffio arriva sulle nostre vite con nomi e cognomi. È un fenomeno verificabile. Sono “i volti silenziosi che in mille modi ci hanno teso la mano e con azioni molto concrete ci hanno ridato speranza e ci hanno aiutato a ricominciare”.
La circostanza del discorso di ieri era però la cerimonia delle ceneri. E nell’idea della cenere, c’è qualcosa che sembra opposto alle metafore così aperte e liberanti dell’aria e del soffio. Nella realtà della cenere c’è un qualcosa di irrespirabile, verrebbe da dire di soffocante, fisicamente e mentalmente. L’essere polvere e il tornare polvere potrebbe essere vissuto come qualcosa di insopportabile. D’altra parte la Chiesa con molto realismo ogni anno ci invita a questo gesto di ridimensionamento del nostro ego, ricordandoci che siamo davanti ad un dato di realtà di cui prendere coscienza e da cui nessuno sfugge.
Ma un cristianesimo che si ferma alla cenere è un cristianesimo che lascia gli uomini in una condizione di asfissia: e a volte nella storia questo è accaduto. Invece non può essere della cenere l’ultima parola. Lo ha detto Francesco, concludendo la sua omelia, facendoci “respirare” con una preghiera, che è anche una meravigliosa reminiscenza poetica da Quevedo: “la nostra polvere — per la forza del tuo soffio di vita — si trasformi in polvere innamorata“.
“Saranno cenere, ma avrà senso”, aveva scritto il grande poeta spagnolo del ‘600 . “Polvere saranno, ma polvere innamorata”.