Sembra veramente impossibile, illogico, addirittura autolesionista ma sta accadendo di nuovo: lo stalinismo risorge in Russia, per l’ennesima volta.
Illogico perché se c’è un popolo contro il quale si è scagliata la violenza staliniana è proprio il popolo russo; non c’è praticamente famiglia che, a scavare solo un poco, non abbia avuto un parente arrestato, deportato, recluso o fucilato. Eppure la memoria familiare non ha niente da dire perché spesso è rimossa, inconsistente di fronte all’ondata popolare dell’entusiasmo patriottico pompato su tutti i canali pubblici: Stalin il generalissimo che ci ha portato alla vittoria, grazie Stalin perché ci hai fatto grandi. Questo recupero vergognoso per la sua assoluta immoralità non è caduto come un fulmine a ciel sereno, è stato preparato già da diversi anni, introdotto un po’ per volta e fatto digerire da una formula solo all’apparenza più inoffensiva: Stalin avrà fatto quel che ha fatto, però almeno ha sollevato la Russia agricola al rango di super potenza industriale. Stava scritto sui libri di scuola già dal 2000: “Stalin era un grande manager”.
E dal grande manager siamo arrivati al grande vincitore, anzi, al “salvatore” della nazione e del mondo.
È incredibile come un popolo possa volersi tanto male da esaltare il suo peggior carnefice. Ma sembra sia proprio così: i ritratti del “Padre del popolo” compaiono ormai senza più pudore nelle manifestazioni più diverse, il suo nome ritorna in tutte le sedi, anche ufficiali. Le librerie sono piene di pubblicazioni tese a “riabilitare” Stalin dalle “calunnie”, dove le purghe del Grande terrore sono ribattezzate “grande purificazione, dolorosa ma necessaria”. Il filo rosso dei festeggiamenti per il 70° della vittoria era la gratitudine per colui che la rese possibile. Nella città di Orel il Partito comunista ha proposto di erigere “il primo monumento a Stalin nella Russia contemporanea”. Fortunatamente si sono trovati quasi 3mila cittadini che hanno firmato una petizione per bloccare il progetto, ma il pericolo resta poiché l’iniziativa ha avuto la sanzione ufficiale del governatore della regione, che ha elargito 100mila rubli. Che “quasi 3mila” cittadini si siano opposti può essere poco, su una città di 300mila abitanti, ma può essere anche tanto se si considera il clima generale di esaltazione e paura, e la pressione psicologica dei media.
Questa stupefacente facilità a “cancellare dalla memoria” almeno 20 milioni (secondo le stime più prudenti) di parenti, amici e concittadini ammazzati senza un perché, stride ferocemente con uno degli slogan più in auge delle manifestazioni patriottiche odierne: “Noi non dimenticheremo, non perdoneremo!”. Ma come, ribatte qualche critico russo: non si perdona ai nazisti e si perdona agli stalinisti? Su che base si può dire che Hitler era un nemico e Stalin no, posto che entrambi hanno causato milioni di vittime russe? E a questa obiezione i neostalinisti rispondono chiedendo di punire come riabilitazione del nazismo ogni confronto tra questo e lo stalinismo. Il Grossman di Vita e destino verrà di nuovo vietato?
Qui si capisce che la questione non è meramente etnica, come non è meramente psicologica, anche se molti parlano di un’immensa “sindrome di Stoccolma” collettiva. Si tratta di un corto circuito non tanto della memoria quanto della coscienza. Stalin è salito e sceso dagli altari diverse volte senza che nelle coscienze scattasse un giudizio secondo ragione. Quando nel 1953 morì, e le ferite del suo “regno” erano ancora tutte aperte e sanguinanti, la gente singhiozzò disperata. Poi nel 1956 Chruscev ritenne necessario denunciare al XX Congresso del Partito il “culto della personalità e i suoi eccessi”, e da quel momento il nome di Stalin fu bandito dalla toponomastica e le sue statue abbattute nelle piazze, ma contemporaneamente anche il suo operato reale fu cancellato dalla memoria, fin quasi a dimenticare perché era degno di condanna. Per questo la destalinizzazione di Stato risultò superficiale, una mera tattica, e nel giro di pochi anni, già negli anni 60, lo stalinismo tornò ad aleggiare. Durante la perestrojka praticamente tutta la stampa, a suon di rivelazioni e denunce, prese a picconate la sua figura, tanto che sembrava distrutta per sempre. Ma non era così, nessuna caduta di Stalin è stata definitiva.
Lo avevano capito i dissidenti, che non a caso dopo il ’91 si sono tuffati nel lavoro sulla memoria del totalitarismo, per conservare documenti, materiali d’archivio, testimonianze, e scongiurare fatti alla mano, con documentazioni incontrovertibili, il ritorno di un fantasma tanto più invincibile quanto più vago e indeterminato. Ma il duello tra mito e realtà è solo all’inizio. Per questo gli attivisti che lo sanno insistono sui nomi, i volti delle vittime: non solo cifre e dati statistici ma persone in carne e ossa, perché solo la persona concreta può vincere veramente le astrazioni e le menzogne dell’ideologia. Manca il giudizio di realtà e di ragione che Grigorij Pomeranc, pensatore dissidente, auspicava nel suo ultimo libro, andando al cuore di quello che costituisce il fondamento della persona, il suo senso di responsabilità, il suo aver di fronte qualcosa o, meglio, qualcuno a cui rispondere, fino a pentirsi del male fatto: «Sono certo che molti nostri uomini di governo ritengano necessario tener vivo il mito del nostro buon passato sovietico per costruire su questo mito l’ideologia unitaria, …Io invece — conclude — sono dell’opinione opposta: solo un profondissimo pentimento nazionale purificherà il clima morale in Russia e potrà fare da fondamento alla rinascita».
“Se non ci sarà pentimento, non ci sarà neanche rinascita”: questa l’unica destalinizzazione possibile.