Amore o pantofole

Quando sentiamo una persona parlare è in gioco, oltre al contenuto di quello che lui dice, anche la personale disposizione di ciascuno. L'editoriale PIGI COLOGNESI

Ci risiamo. Ancora un volta Eugenio Scalfari intervista papa Francesco e ancora una volta, appena pubblicata, deve sorbirsi puntualizzazioni e smentite. Anzitutto per i grossolani errori compiuti nella stesura dell’articolo; era già successo quando scrisse che il Papa aveva da poco beatificato Ignazio di Loyola, che è santo da quattro secoli. Ma soprattutto perché attribuisce al pontefice concetti da lui non espressi o espressi in formulazioni sostanzialmente differenti. Frasi estratte da una discussione, che si può definire amicale, e malamente virgolettate hanno fatto dire al Papa cose che poi il servizio stampa del Vaticano ha puntualmente rettificato o addirittura smentito.

Al netto di eventuali cattive intenzioni del giornalista, il fatto mi ha spinto a riflettere sulla qualità del nostro ascoltarci reciprocamente. Un adagio della filosofia scolastica recita così: «Quidquid reciputur ad modum recipientis recipitur»; la frase ha delle complesse sfumature filosofiche, ma per quello che qui mi interessa si potrebbe tradurre così: «Tutto quello che si riceve dipende dalla disposizione del ricevente». Vale a dire che quando sento una altro parlare è in gioco – oltre al contenuto di quello che lui dice, che è quello che è – anche la mia personale disposizione. Se quello lì è il mio più caro amico oppure uno che altre volte mi ha fatto scoprire cose interessanti, sarò nella disposizione di ascoltarlo con apertura simpatetica; e di conseguenza capirò di più quello che mi dice. Se invece mi trovo nel mezzo di una conversazione banale oppure di fronte a uno che ho già sperimentato inattendibile, starò distratto o guardingo; e capirò molto meno.

C’è poi un’altra disposizione in cui noi, in veste di riceventi un discorso, ci troviamo molto spesso. È quella di essere così convinti delle nostre posizioni da non essere minimamente disponibili ad ammettere qualsiasi argomentazione contraria che l’interlocutore ci offra. Proprio non la si sente e si può giungere addirittura al limite grottesco di essere persuasi che l’altro abbia confermato esattamente quello di cui noi eravamo già convinti prima di sentirlo parlare, mentre in realtà diceva tutt’altro.

Le sfumature intermedie di questi diversi «modi» di recepire la parola di un altro sono pressoché infinite e ognuno le può facilmente scovare in sé o in altri se solo presta un poco di attenzione ai dialoghi in cui si trova a capitare. Risulterà anche chiaro che il «modum» di partenza con cui ascoltiamo non possiamo evitarlo: la disponibilità verso un amico, il sospetto nei confronti di chi ci ha mentito, una convinzione forte sono necessariamente atteggiamenti con cui entriamo nel colloquio. Il punto non è eliminarli; anzi essi sono – se ne siamo consapevoli – come gli strumenti con cui entrare nel colloquio. Ma poi – se vogliamo che sia un dialogo e non un monologo mascherato – occorre avere la disponibilità a fare un passo avanti. Così, magari, l’amico mostrerà di avere bisogno lui, questa volta, di una parola di aiuto o di correzione. Il bugiardo potrà, in questo caso, dire una cosa vera. E la mia ferma convinzione dovrà forse essere messa in discussione dalle argomentazioni dell’altro, cui certamente non mi azzarderò a mettere in bocca parole non sue ma mie.

C’è in questa dinamica un dettaglio non irrilevante: la disposizione che ho descritto, pur essendo l’unica che fa progredire la consapevolezza della persona e la qualità del rapporto, è scomoda. Ma io non riesco ad immaginare un innamorato della verità che preferisca poltrona e pantofole al faticoso inseguimento della sua amata.

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