Vasilij Grossman, l’autore dell’indimenticabile Vita e destino, è stato per tutti gli anni della Grande Guerra Patriottica (come l’Unione Sovietica ha battezzato il conflitto scatenato da Hitler nel giugno del 1941) corrispondente dal fronte per il giornale dell’Armata Rossa. Ha vissuto il grave sbandamento inziale dell’esercito sovietico e la disastrosa ritirata che ha lasciato in mano al nemico territori enormi; ha partecipato all’epica battaglia di Stalingrado, al successivo contrattacco e alla riconquista di mezza Europa; ha visto le fosse comuni dove i nazisti avevano sepolto gli ebrei sterminati, tra cui sua madre, e i lager appena abbandonati; ha passeggiato davanti alla porta di Brandeburgo il giorno della resa tedesca. Armato di piccoli quadernetti di appunti, Grossman annotava quanto vedeva, i colloqui che aveva, le operazioni militari in cui era coinvolto, e poi scriveva i suoi apprezzatissimi articoli.
Ora Adelphi pubblica tutto questo materiale nel volume Uno scrittore in guerra, che offre un grande aiuto per comprendere meglio il romanzo capolavoro. Ma non è sugli aspetti storici o letterari che voglio soffermarmi: quegli appunti ci mostrano cosa significa guardare e guardare da uomo, cioè avendo il coraggio di far prevalere il dato reale – con tutte le sue scomode domande – rispetto a pregiudizi di qualsiasi tipo. È da questa disposizione che sgorgherà l’ineguagliabile grandezza di Vita e destino. Alcuni esempi.
Chiamato a rapporto dal commissario politico del giornale, Grossman si sente rimproverare per non aver descritto la «eroica resistenza» del soldati sovietici nella città di Orël; questione di propaganda necessaria per tenere alto l’umore della popolazione. La risposta dello scrittore è disarmante: «Non l’ho descritta perché non c’è stata nessuna resistenza». Semplice. Ma pericolosissimo: si poteva venir fucilati con l’accusa di disfattismo per molto meno.
La natura è protagonista attiva nella percezione e quindi nella scrittura di Grossman. I bombardieri tedeschi che seminano strage, specialmente di notte, sono «annidati tra le stelle come pidocchi. L’oscurità dell’etere è satura del loro ronzio. Il buio del cielo d’agosto si accende di luci». Aggiunge anche: «Quando di notte cade una stella o di giorno rimbomba un tuono, tutti sussultano, ma poi scoppiano a ridere: “è solo il cielo, quello vero”».
Dopo i terribili mesi di Stalingrado, Grossman scrive alla moglie: «Mi sono passate talmente tante cose davanti agli occhi che non riesco davvero a capacitarmi di come la mia anima, il mio cuore, la mia memoria siano in grado di accogliere tutto ciò». Le «tante cose» non tento nemmeno di elencarle, ma non posso non far notare che lo scrittore usa, per descrivere il suo atteggiamento di fronte ad esse, il verbo «accogliere». Per tale accoglienza ha potuto vedere quello che altri non hanno visto o fatto finta di non vedere. Sarà poi il suo ingenuo eroismo – che è «questione di gesti quotidiani», scrive – a spingerlo a mettere per iscritto con semplicità disarmante, nella trasfigurazione del romanzo, quello che aveva visto.
Consapevole che la realtà eccede sempre la parola: «A volte sei talmente sconvolto da quello che hai visto che il sangue defluisce dal cuore, e sai già che l’immagine più terribile balenata davanti agli occhi ti perseguiterà e ti graverà sull’anima fino alla fine dei tuoi giorni. Ma poi la cosa più strana e sorprendente è che quando ti metti a scrivere un pezzo scopri che, chissà come, non c’è spazio per tutto questo sulla carta. Scrivi dei corpi corazzati e dell’artiglieria pesante… e tutt’a un tratto ti ricordi delle api che ronzavano in quel villaggio in fiamme, intorno a un ramo di melo fiorito, e di quel vecchio bielorusso scalzo che era sbucato fuori dalla trincea dove aveva cercato scampo per rimuovere l’alveare mentre i soldati lo osservavano e, Dio mio, quante cose potevi leggere nei loro occhi malinconici e pensierosi».