Il forum di Davos tenutosi la settimana scorsa ha mostrato quanto cambi rapidamente il mondo. Nell’edizione del 2017 la preoccupazione per il populismo era ossessiva. L’inquietudine è diminuita considerevolmente, fino quasi a scomparire. L’economia mondiale cresce, gli Stati Uniti crescono, l’Europa cresce. I leader più nazionalisti sembrano aver imparato la lezione e si rendono più simpatici. Trump ha assicurato che “America first” non significa “America sola”. Il campione del protezionismo è arrivato a postulare mercati aperti e liberi. Theresa May ha difeso la politica industriale britannica, ma ha dimenticato la Brexit. Anche Narendra Modi, il primo ministro che vuole rendere l’India un Paese dominato da un solo colore, quello zafferano dell’Induismo, ha postulato il multiculturalismo.
L’epidemia di particolarismo in politica è alle spalle? Non esattamente. Davos ha testimoniato la frattura crescente (e preoccupante) tra la società civile, il mondo della scienza e dell’impresa e i leader politici. È l’impressione che resta a Mike Rosenberg, professore dell’Iese, probabilmente la miglior business school in Europa. Rosenberg, che ha seguito molte delle sessioni, assicura che “ci sono due mondi. Da un lato c’è il mondo delle Ong, degli accademici, delle aziende che cercano di risolvere i problemi e che ha un grande ottimismo (sicuramente eccessivo). Dall’altro c’è il mondo della politica. I politici, dietro i loro discorsi ufficiali, mostrano un mondo frammentato. Si vede che sono più interessati a mobilitare i loro elettori che a risolvere i problemi di tutti. Domina l’annullamento dell’avversario nazionale o internazionale”.
Davos, come ogni forum nazionale o internazionale che si svolge in questo periodo, è eccitato dalle possibilità che porta la Quarta Rivoluzione industriale. La digitalizzazione suscita entusiasmo. La nuova febbre ha sicuramente qualcosa di ingenuo e incorpora molte dosi di vecchia avidità. Ma è sempre positivo che l’inizio di un nuovo universo, in questo caso tecnologico, risvegli i “desideri socializzanti”, la voglia di costruire insieme agli altri. Ciò che colpisce è che, nonostante la relativa (molto relativa) sconfitta del populismo e del nazionalismo, il mondo della politica, come sottolinea Rosenberg, continui a pensare con schemi particolaristici. La difesa del proprio, del particolare, in politica è legittima. Il populismo e il nazionalismo sono le forme patologiche di quella posizione originariamente giusta.
Sicuramente ci vorrà del tempo perché il populismo e il nazionalismo, che hanno dominato la scena negli ultimi mesi e che vi possono tornare in qualsiasi momento (vedasi Catalogna), agiscano come vaccino universale e generalizzato. Ma, come accade a Rosenberg, ogni volta appare sempre più sconfortante lo spettacolo di una politica intesa come difesa di una parte, anche se è “quella della verità”.
Nell’Italia del dopoguerra, prima della caduta del Muro di Berlino, la mentalità della Democrazia cristiana, preoccupata di occupare spazi per fermare l’avanzata del comunismo, ha avuto un suo fondamento. Venticinque anni dopo, quando il ciclo politico è definitivamente finito e ricompaiono volti vecchi, quella base è scomparsa. Nella Spagna di 15 anni fa, lo scioglimento di fatto del progetto di rifondazione nazionale della transizione poteva spiegare una politica prevalentemente difensiva. In nome del pluralismo autentico, della tradizione dominante aggredita e della libertà, era in una certa misura logico che l’interesse principale fosse concedere spazi alla parte più debole. Ma dopo aver sofferto negli ultimi mesi il particolarismo del movimento indipendentista, un primo esempio di oblio di quel che si ha in comune, occorre qualcosa di nuovo. È superato ormai il fare politica per difendere in un certo modo la verità (la verità non si fa spazio grazie alla politica), per sostenere i politici che sono “dalla parte buona”, perché questi ultimi difendono lo spazio delle opere e delle iniziative che sono dalla parte buona. C’è qualcosa di pretenzioso e ingenuo in questo modo di vedere le cose. Non si accorge che le cose sono cambiate.
Il concetto di spazio politico e l’obiettivo della sua occupazione hanno a che fare con una mentalità che concepisce il potere come qualcosa di geografico: è al di sotto o al di là di una linea ben definita che ci separa dagli altri. Ma non c’è più alcuna tradizione dominante in piedi. Le istituzioni resistono ancora con qualche difficoltà. Il potere è anonimo (la sovranità si è dissolta), siamo tutti complici e vittime, siamo tutti stanchi di sostenere o attaccare istanze che si dice essere giuste, esausti di difendere noi stessi (l’esempio della Catalogna è eclatante), desiderosi di aiutarci a vivere meglio.
Saremo – come direbbe Péguy – alcuni archivi e alcune tavole, alcuni fossili, sopravvissuti a epoche storiche? In questo periodo di transizione è più urgente che mai una politica che faciliti l’incontro, la costruzione dello spazio comune, la possibilità di ricostruire ciò che unisce. Una politica che si espanda gratuitamente, una politica non trincerata, una politica sinceramente dalla parte dei beni comuni, che sono beni di chi pensa in modo diverso.