“Ho perso tutto: a 66 anni, e con 40 di lavoro sulle spalle, non ho più nulla. Ho salvato due o tre camion solo perché erano parcheggiati in un punto più alto. Ho pensato alle centinaia di migliaia di euro investiti, ho pensato ai 35 dipendenti e alle loro famiglie, ho pensato ai miei tre figli … e mi sono sentito perso. Poi però ho visto i miei operai che venivano in azienda a togliere il fango, mi sono accorto che per loro quel posto è molto di più di una busta paga o di un turno di lavoro. Allora ho detto che no, ci riproverò, a costo di lasciarci le penne”.
A parlare è un imprenditore come tanti altri della bassa padovana e vicentina, disastrati dall’alluvione inaspettata, ma forse prevedibile, che ha sconvolto la sua vita come quella di molte altre persone normali. Ho pensato e ho visto, ci dice: e se il pensiero legittimamente lo turba, la vista dei suoi collaboratori intenti a darsi da fare lo conferma nella volontà di riprovarci, si spera anche con il pubblico aiuto.
Pensare e vedere sono anche i due modi con cui il fenomeno piccola impresa può essere conosciuto. Molti di quelli che pensano arrivano a conclusioni negative. Due in particolare. Gli intransigenti addebitano alle imprese di minori dimensioni i supposti limiti del nostro fare economia inventando le categorie, su queste pagine più volte ricordate e criticate, del nanismo imprenditoriale e del capitalismo familistico e perciò amorale. I perdenti identificano nella pur vera assenza del “sistema paese” la causa prima dell’insuccesso e del conseguente fallimento di molte piccole aziende dimenticando che, nelle stesse condizioni, tantissime altre imprese, molte più delle prime, sono riuscite a produrre e mantenere, anche in questi difficili anni, risultati di conseguenza ancor più straordinari.
Pensare e non vedere rischia di essere allora il destino dell’intellettuale. Niente di particolarmente grave se non si pretendesse poi di farne discendere conseguenze pratiche in termini di provvedimenti legislativi e di politica economica. E cosa invece c’è da vedere? Innanzitutto la forza di una posizione umana. “Certo che le circostanze non sono favorevoli, e quando mai, bisognerebbe… / bisognerebbe niente / bisogna quel che è / bisogna il presente”: nelle parole di Giovanni Lindo Ferretti c’è la coscienza e la consistenza del fare tipica della maggioranza dei piccoli imprenditori.
Senza indebite invasioni di campo, questa posizione è ciò di cui la nostra società, la società delle Ruby e delle ruberie, delle giustificazioni e dello scaricabarile, ha più bisogno.Le chiare parole di domenica del Papa a sostegno del lavoro rurale sembrano sottolineare questa urgenza: “Mi pare il momento per un richiamo a rivalutare l’agricoltura non in senso nostalgico, ma come risorsa indispensabile per il futuro. Non pochi giovani hanno già scelto questa strada: anche diversi laureati tornano a dedicarsi all’impresa agricola, sentendo di rispondere così non solo a un bisogno personale e familiare, ma anche a un segno dei tempi, a una sensibilità concreta per il bene comune”.
A chi denuncia i limiti, più o meno strutturali, del nostro fare impresa, occorre allora opporre una posizione diametralmente opposta: non debolezze da superare, ma peculiarità da difendere impegnandosi, evidentemente, a ridurne gli aspetti negativi e a migliorarne l’efficacia.Non si tratta, dunque, di valorizzare solo la piccola dimensione tipica delle nostre imprese, ma di estendere il riconoscimento ad altre caratteristiche quali la vocazione imprenditoriale, la proprietà familiare e l’attività prevalentemente manifatturiera.
Queste quattro caratteristiche, integrate fra di loro, costituiscono un unicum nel panorama economico internazionale per contributo alla creazione del Prodotto interno lordo, per capacità di export, per numero di posti di lavoro, per numero di imprese. Nel nostro Paese, il contributo sul totale, in queste come in altre grandezze economiche, di imprese di piccola e media dimensione, di proprietà familiare, a vocazione imprenditoriale e con attività prevalentemente manifatturiera è tra i più alti in percentuale, ma spesso anche in valore assoluto, rispetto a quello realizzato da imprese a queste confrontabili in altre economie nazionali sviluppate. Ma tutto ciò va visto.