La fine della civiltà e il cielo stellato

La metafora del cielo stellato abbraccia tutte le culture, dalla preistoria ad oggi. Ma in tempi di crisi occorre ancor più che qualcuno ci faccia guardare le stelle. Perché? LUCA DONINELLI

Cari lettori, avvisiamo che l’editoriale del venerdì di Giorgio Vittadini uscirà in altra data (ndr).


La metafora del cielo stellato abbraccia, credo, tutte le culture e le civiltà del mondo dalla preistoria ad oggi. E molte parole del nostro vocabolario quotidiano nascono da questa metafora. Diciamo “cosmico”, “stellare” per indicare qualcosa di straordinario. L’aggettivo “universale” riflette la persuasione antichissima che tutto il mondo visibile abbia un centro segreto. Per non dire di una delle parole più belle, “desiderio”, che fa riferimento diretto all’uomo che solleva lo sguardo verso le stelle (de-sidera). 

Il cielo stellato fornisce anche un paradigma per l’esperienza sensoriale e perfino costruttiva. L’idea stessa di “ordine” — che esista, cioè, una disposizione armonica di tutte le cose iscritta nel loro stesso sorgere, come ricorda il salmo 138 (“Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra”) — trova una conferma immediata nella forte impressione di ordine che ogni uomo riceve osservando il cielo (rinvio, a questo proposito, al meraviglioso racconto Lo Spinoza di Via del Mercato di I.B. Singer, dove questa esperienza è descritta con precisa ironia). 

L’esigenza che il nostro mondo possa essere edificato secondo questa sapienza arcana si legge in certi edifici antichissimi giunti fino a noi, come la Grande Piramide di Giza, dove secondo alcuni (ed è probabile che sia così) le proporzioni dell’opera e i loro rapporti racchiudono tutta una serie di conoscenze astronomiche, accumulate nei secoli precedenti. 

La metafora del cielo stellato sta anche alla base della nostra sensibilità acustica, dai ritmi in cui si scandiscono i suoni alla loro diffusione nello spazio — o forse sarebbe più esatto dire nello spazio/tempo — allo sviluppo della musica nella nostra cultura e, credo, in tutte. Nel mio romanzo Le cose semplici uno dei personaggi, l’ineffabile prof. Malinverni, si spinge in una similitudine tra il cielo stellato e l’intrico del sistema fognario di una grande città. 

In conclusione, mi sembra che tra cielo stellato e civiltà esista un rapporto concreto, fattivo, che oltrepassa la psicologia (dove si parla, in questo caso, di “archetipi”) perché non riguarda solo l’architettura della nostra mente ma anche e soprattutto la corrispondenza tra questa struttura e quella della realtà tutta. E se il centro di tutto questo ordine ha sempre ricevuto il nome di Dio, è interessante il fatto che Nietzsche, che pure dichiara la morte di Dio, non può abolire l’ordine in sé, ma si limita a trasferirlo, a cambiarne il piedestallo (sempre che sia questo ciò che il grande filosofo ha fatto veramente).

Ogni grande opera letteraria — dagli antichi poemi alla Commedia al grande romanzo moderno, che ne ha raccolto l’eredità — non si è mai accontentata di fornire un ritratto della società, ma ha incarnato in qualche modo un modello cosmologico. Per questo (con una certa approssimazione) diciamo che Dante è tolemaico, che Cervantes è copernicano, e così via. 

Perché questo? Perché la grande letteratura ha il compito, che gli viene non da qualche teoria letteraria ma oso dire dalla sua stessa natura, di vigilare — come la scolta dell’inizio sconvolgente dell’Orestea di Eschilo — sul nesso tra ordine universale (lo chiamo così, in tutte le sue possibili accezioni) e costruzione umana. Solo un miope potrebbe non vedere l’Universo stesso in fiamme nell’inizio di Vita e Destino

Ma l’accenno al capolavoro di Grossman ci obbliga a ricordare che la storia umana è fatta non solo di costruzione ma anche di distruzione. Eliot appare quasi ottimista quando ci dice che “se il Tempio dev’essere abbattuto/dobbiamo prima costruire il Tempio”, rispetto al Manzoni dell’Adelchi (“Anfrido qual guerra! e qual nemico! Ancor ruine sopra ruine ammucchierem: l’antica nostr’arte è questa”). La distruzione appartiene a questo rapporto: la letteratura non ci può raccontare il nesso tra noi e le stelle senza includere la distruzione, la sconfitta e la morte. 

E quando una civiltà rischia di disfarsi, come appare oggi la nostra, in cui il vecchio patto sociale — fondato sulla fiducia — sembra sul punto di essere rescisso e ogni singolo elemento di essa sembra andarsene per i fatti suoi, proprio allora è il momento di fidarsi degli artisti e di tutti quelli che quel nesso non possono metterlo mai tra parentesi, quale che sia il loro pensiero e la loro mentalità. 

Perché quando quel nesso si allenta, le parole (dei politici e degli intellettuali) si fanno più lontane, confuse. Gli antichi Ebrei lo sapevano, e da questo sapere — che intelligentemente includeva l’imprevedibilità di Dio — nascevano i profeti. Che non erano veggenti o indovini, secondo la ridotta prospettiva greca e romana, e nemmeno mediatori tra l’aldiquà e l’aldilà come le sacerdotesse di Apollo o le Menadi, ma uomini come noi, uomini “più di noi” perché definiti integralmente non dalla forma della società ma da quel rapporto originario. 

I profeti ci ricordano che, come il cielo stellato (che è un cantiere in continuo sviluppo), anche la nostra vita sociale vive se il principio che l’ha fatta nascere agisce anche nel presente. Non è una legge sociologica, questa, ma — oso dire — una legge naturale e va ripensata. Tra le tante urgenze del tempo presente, esiste anche questa.

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