Per un mese intero – volenti o nolenti – la nostra attenzione sarà concentrata sul tema elettorale, sulla scelta del partito, della coalizione, del candidato cui dare il nostro “voto”. Parola interessante, questa; è il participio passato di un vecchissimo verbo latino che significa promettere solennemente, specificamente in senso religioso.
Questa accezione è tutt’oggi conservata; pensiamo alla cerimonia con cui un giovane o una ragazza emettono i “voti”, cioè dedicano definitivamente la loro esistenza a un ordine religioso, oppure pensiamo a quei quadretti e cuori d’argento che tappezzano molti santuari: documentano il realizzarsi di una promessa fatta a Dio – “voto” – in un momento di bisogno o per scampare un pericolo. Insomma, il voto esprime una volontà, una decisione, una dichiarazione del proprio pensiero così importante che attinge addirittura l’ambito del sacro.
Ovviamente una tornata elettorale in sé non ha – grazie a Dio – nulla di sacro; tuttavia ci si augurerebbe che mantenesse quel livello di serietà, di consapevole trepidazione per una scelta importante, di pacata compostezza, propria di chi si sta occupando di un affare delicato, sta maneggiando un fragile cristallo o una bomba difficile da disinnescare.
Giuseppe De Rita ha scritto che, dopo decenni di politica gridata, di reciproche delegittimazioni, di moralismi pelosi e di massicce rottamazioni, di promesse mirabolanti e generalizzati vaffa, “se un qualche privato cittadino esprimesse un “lasciatemi stare”, converrà dire che non avrebbe torto”.
E invece torto (nonostante tutte le plausibilissime giustificazioni) ce l’avrebbe. Non perché violerebbe chissà quale principio morale che obbliga al voto, non perché mostrerebbe un atteggiamento egoistico e disinteresse per la “cosa pubblica”, che è così lontana che “pubblico” non significa più “del popolo”, cioè anche mio, ma di una spaventosa e incomprensibile macchina amministrativa. Avrebbe torto perché ferirebbe qualcosa che ha dentro di sé e che non dipende da facce, sigle, simboli, nomi che vede sulla scheda elettorale, sui manifesti e nei dibattiti televisivi o sui social; soffocherebbe il suo anelito alla giustizia, il desiderio, cioè, che le cose di questo mondo e i rapporti tra le persone si svolgano secondo un equilibrio che salvi il maggior bene per tutti. Questo il nostro cuore inesorabilmente desidera, ed è un desiderio sacro, al quale è ragionevole offrire il proprio “voto”.
È chiaro: dall’empireo del desiderio si deve scendere – e ci si sente come Dante che s’imbuca sempre più in basso nei gironi infernali – a cercare di capire programmi, alleanze, plausibilità delle promesse, veridicità delle accuse eccetera. Ma sempre un desiderio ideale si deve incarnare attraverso una simile dinamica: non si può volere l’amore senza fare i conti con tutto quanto è sgradevole nelle persone che lo suscitano. Aver imposto, per la paura di questa fatica, un’idea di amore senza legami stabili l’ha gravemente svigorito; analogamente aver delegittimato la politica come roba sporca (sognando magari istituzioni, corti, consigli di saggi miracolosamente immacolati) ha rinsecchito in noi la pianta della giustizia, di cui la politica è strumento.
Ma sappiamo che le dimensioni ultime del nostro cuore non possono essere soffocate definitivamente; chissà che una campagna elettorale vissuta con vigile e cosciente coinvolgimento non contribuisca a rinvigorire il “sacro” germoglio della giustizia che in noi preme per crescere e manifestarsi.